Tra il Tardo rinascimento e il Neoclassicismo la tradizione iconografica ci ha consegnato una visione edificante e spesso eroica della morte di quei filosofi antichi che, stando alle fonti, dopo essersi dedicati all’impegno politico, si sono sottomessi al destino imposto loro da un tiranno: un atto di libertà e di coraggio civile che afferma l’indipendenza dell’intellettuale dal potere e dai suoi soprusi.
Questo cammino iconografico si è valso di fonti storiche e letterarie. Pittori e scultori hanno sovrapposto ai testi la loro libera reinterpretazione. Ripercorrendo questo cammino ritroviamo un risvolto della morte divenuto estraneo a noi contemporanei. L’atto pubblico del morire, messo in opera davanti a testimoni destinati a tramandarne la memoria, è visto come il coronamento del modo in cui si è vissuto. «Muore bene chi vive bene», potremmo dire.
Molto più della morte di Socrate, tanto celebre quanto celebrata, o di quella di Catone l’Uticense, che da giovane frequentò lo stoicismo prima di consacrarsi alla carriera politica e amministrativa, quella di Seneca è stata elevata a modello. Con il tema si sono cimentati, tra i tanti, Peter Paul Rubens (1615), Luca Giordano (1684-85) e Jacques-Louis David (1773).
Rubens ci restituisce una scena statuaria, di forte monumentalità, ispirata alle sculture che aveva ammirato nel soggiorno romano, ma vi sovrappone un’interpretazione personale del tema, di cui diremo. Giordano invece sacrifica la figura eroica di Seneca all’architettura scenica, interamente occupata da una calca di persone che assistono il filosofo morente e ne fissano gli ultimi pensieri; il dipinto resta edificante, ma l’esercizio virtuoso sottrae forza al tema.
Pur aderendo formalmente al motivo didascalico del filosofo che trasforma la propria morte in un estremo magistero, il giovane David sposta il registro della scena dal piano eroico a quello affettivo. Grazie alla leggerezza cromatica presa da François Boucher, suo lontano cugino e suo primo modello, l’attenzione cade sul Seneca marito, che fa allontanare a forza la moglie Paolina per evitarle lo strazio del vederlo morire. In David sarà la rappresentazione della morte di Socrate (1787), a restituire alla figura del filosofo un’aura eroica e quasi monumentale.
Ritroviamo il tema affettivo, ora sotto forma di contrasto tra l’amore paterno e l’indifferenza filiale, nella rappresentazione data da Eugène Delacroix delle ultime parole di Marco Aurelio morente (1844). Il pittore prende congedo dai Lumi. Il filosofo che più di altri ha affidato alla filosofia il compito di prepararci a ben morire, cerca conforto nella mano di Commodo, che guarda altrove svagato.
L’entourage che lo attornia piange l’imperatore, non il pensatore. All’apice del romanticismo l’esemplarità civile del filosofo ha perso interesse. Il Marco Aurelio di Delacroix è l’imperatore illuminato che muore inascoltato e senza eredi politici.
Nelle natie Fiandre il giovane Rubens entrò in contatto con il filosofo del diritto Justus Lipsius, poi ritratto a titolo di omaggio postumo nei Quattro filosofi (1612), dove appare insieme al pittore sotto un busto di Seneca. Lipsius divulgò le dottrine stoiche cercando di renderle compatibili con il cristianesimo; diede diffusione agli scritti di Tacito; ammirò come Machiavelli le virtù della Roma repubblicana; teorizzò la costanza come forma di resistenza e rimedio contro i mali civili.
Successivamente, durante il soggiorno italiano, Rubens conobbe la scultura romana e assimilò l’impronta eroica della ritrattistica d’età imperiale. Poco incline alla riflessione filosofica e alla religiosità protestante e controriformata, non particolarmente fervente ma ben dotato di intuito e spirito imprenditoriale, Rubens seppe interpretare i desideri dei committenti, per lo più regnanti, prelati cattolici e ricchi letterati.
A prima vista il dipinto apparenta la morte di Seneca a quella di Socrate. La ricostruzione del suicidio data da Tacito negli Annali evidenzia molte somiglianze con la fine di Socrate descritta da Platone. Rubens dà per noto l’antefatto. Nerone ha deciso di condannare a morte Seneca, ma per risparmiargli l’esecuzione lo invita a suicidarsi. Seneca acconsente. Interritus, imperturbabile davanti ai centurioni, prega gli amici di non abbandonarsi al dolore e di farsi latori della sua eredità, l’educazione alla saggezza mediante l’esempio. «La fama di buoni stili di vita è il frutto di una costante amicizia». Gli stoici sono tenuti a meditare su una vita condotta secondo la virtù. La moglie Paolina desidera morire con lui, e lui la autorizza, ammirandone la fermezza, ma subito l’allontana per alleviarle lo strazio (verrà salvata in extremis dai soldati di Nerone).
La scena del dipinto inquadra il corpo di Seneca, indebolito dalla vecchiaia e dalla scarsa alimentazione. Il sangue defluisce dai polsi, dalle caviglie e dalle ginocchia, quanto basta a celebrare il rito dello sversamento del sangue sulle persone circostanti e per terra, in omaggio a Giove liberatore (negli ultimi istanti Socrate celebra una medesima libagione augurale per l’accesso al regno dei morti). Detta le ultime riflessioni a un discepolo: la mano è tremula, ma la mente non cessa di funzionare. Per accelerare la fine Seneca prega l’amico medico Anneo Stazio di salassarlo e somministrargli una pozione di veleno. La fine lo coglie in piedi, con le caviglie immerse in una tinozza di acqua calda.
Le integrazioni introdotte da Rubens rispetto a Tacito sono poche ma molto significative: lo sguardo rivolto verso il cielo; il corpo nudo, sofferente e smagrito ma circonfuso di luce; i genitali coperti da un perizoma; la raccolta del sangue salvifico; la presenza di un discepolo; l’allusione alla lancia di Longino; lo spazio scenico è intemporale e privo di ogni riferimento architettonico. Seneca viene presentato come un martire cristiano senza esserlo. In qualche particolare, addirittura, si allude a Cristo stesso.
Rubens si colloca nel solco di quei pensatori cristiani tardoantichi e medievali che avevano trasformato gli intellettuali pagani in precursori del cristianesimo benché privati della luce della rivelazione. Un impossessamento di questo tipo relativamente a Seneca era stato compiuto già da san Gerolamo. E probabilmente Rubens era a conoscenza della leggenda secondo la quale Seneca aveva conosciuto a Roma Paolo di Tarso.
L’associazione di Seneca ai cristiani era particolarmente facile, visto che nell’immaginario Nerone resta ancor oggi il persecutore per eccellenza dei cristiani. Di fronte all’Erode romano, il martire laico e il martire per fede si possono sovrapporre. E questo non solo per gli incolti. Come altri umanisti, Erasmo da Rotterdam dimostrò che il presunto carteggio tra Seneca e Paolo era un mediocre apocrifo; e tuttavia definì il pensatore «filosofo santissimo» (un giudizio benevolo e omissivo, dacché tace alcune scelte cinicamente compiute da Seneca, anche a prescindere dalle proverbiali ricchezze che si era procurato con la frequentazione del potere).
Questo è Rubens. Ma il suo dipinto di che cosa parla a noi contemporanei? Un dettaglio del quadro può suggerirci una lettura aggiuntiva. Sul pavimento, a sinistra di chi guarda, giacciono due libri, uno dei quali ben rilegato: non propriamente simili al quaderno di appunti utilizzato dal discepolo. Cosa ci fanno quei libri in un dipinto così essenziale nei dettagli? E perché in ogni caso Rubens ha scelto due elementi, il quaderno e i libri, che non esistevano in quella veste all’epoca di Seneca? È una probabile allusione alla figura dell’intellettuale e al suo ruolo pubblico.
L’idea del filosofo come consigliere del Principe aveva ancora cittadinanza ai primi del ‘600 e anche oltre, e sarebbe tornata in auge con gli illuministi. Il dipinto ci parla di una vittima di un governante che non si è avvalso dei consigli degli intellettuali. Gli intellettuali sono i più esposti ai rischi di una fine violenta per volontà di un potere ostile. Ma non per questo debbono abdicare al loro ruolo, devono accettare il rischio del martirio, indipendentemente dalle loro convinzioni religiose, e mantenersi fermi davanti al tiranno. Rubens è stato un pittore nomade per l’Europa; conosceva le corti, aveva visto guerre e intrighi. Da imprenditore si era tenuto fuori, ma da uomo temeva i regnanti non illuminati.
Il nostro tempo vede il declino del ruolo pubblico degli intellettuali. I regnanti non illuminati ci sovrastano, vengono eletti a furor di popolo, somigliano a tribuni della plebe più che a uomini di stato.
La prossima legislatura si annuncia terribile. Oggi leggiamo Seneca perché ci protegga e ammaestri nel tenere al riparo la nostra vita privata dalla sfera pubblica.
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