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Cultura

IL MONDO, CORTILE DI CASA

CESARE CHIERICATI - 01/03/2018

quiliciL’occasione per venire anche a Varese, dopo aver viaggiato, visto e raccontato tutto il mondo, fu la presentazione del diciannovesimo dei venticinque libri da lui scritti nell’arco della sua movimentata esistenza. Il titolo? Il nome di un vento, “Libeccio”. Una storia di sogni e libertà, pubblicato nel 2008 da Mondadori e presentato in città il 26 settembre di due anni dopo nell’ambito del “Festival del racconto Premio Chiara” con un titolo che riassumeva felicemente la vita dell’autore: “Un tranquillo week end d’avventura. Esplorazioni ai confini del mondo”. E l’autore in questione era Folco Quilici, scomparso settimana scorsa, felicemente invitato da Bambi Lazzati abile e tenacissima organizzatrice del Chiara. Bambi mi propose di intervistarlo alla sala Montanari di fronte a un pubblico numeroso, via via sempre più affascinato dal narrare quieto e immaginifico di un uomo mite, cordiale, ma dalla volontà di ferro sorretta da un’intelligenza brillantissima e da una indomabile curiosità.

Affascinato dal cinema fin da ragazzino, dopo il liceo aveva preferito all’università il centro Sperimentale di cinematografia dove si era diplomato in regia. Archiviate le prime esperienze come assistente e aiuto regista, già nel 1954 colse il suo primo successo con “Sesto continente”, un documentario sui mari africani al quale farà seguito nel’56, dunque a soli ventisei anni (era nato nel 1930) “L’ultimo Paradiso, storie del mari del Sud”, Orso d’argento al Festival di Berlino come miglior documentario in concorso. In quegli anni raccontò in prevalenza i mari in cui si immergeva con disarmante facilità per documentare abissi, pesci, paesaggi, ma i primi incombenti danni ambientali senza tuttavia mai dimenticare la gente, gli uomini le donne i bambini che ne abitavano, spesso dolorosamente, le sponde.

La televisione italiana si accorse presto di lui, delle sue qualità. Ne divenne un collaboratore assiduo per lunghi anni (Geo fu una sua invenzione) affermandosi sempre di più come un “narratore del nostro pianeta”. Si perché dopo i mari – mai peraltro accantonati – prese a raccontare anche la terraferma con le sue bellezze ma anche con le sue grandi inestinguibili tragedie: l’India, l’Amazzonia, le Ande peruviane, il Sahara dei tuareg, l’Africa equatoriale, gli spazi sconfinati della Siberia e della Mongolia. Esperienze poi raccolte in un altro fortunato libro, “Terre d’avventura”. Raccontava il mondo ma non dimenticava l’Italia.

Nel 1965 la Esso gli chiese di documentare “L’Italia dall’alto”, ne uscirono quattordici documentari commentati da grandi intellettuali come Calvino, Piovene, Praz e Brandi. Quello dedicato alla Toscana gli valse nel ’71 la nomination all’Oscar per i cortometraggi. Negli stessi anni, dopo aver visto e navigato mari e oceani ovunque, coniò un neologismo geografico, Pontinesia, col quale identificava l’arcipelago Pontino formato appunto dalle isole di Ponza, Palmarola (“la terra emersa più bella del creato” diceva), Ventotene e Zannone che considerava splendide, seconde al mondo soltanto a quelle polinesiane di Bora Bora. In un’intervista al Corriere della Sera, nel maggio 2010, dichiarò che “i problemi della Pontinesia, “le Maldive del Mediterraneo” altra sua definizione, sono gli stessi di tutte le isole italiane:” non si sono adeguate al turismo nautico. Si va a casaccio, non hanno deciso cosa fare del loro futuro, sono come una bella donna che non ha scelto se diventare una gran dama o fare la prostituta oppure prendere i voti ed entrare in un convento”. Il nove settembre del 2014 Ponza gli conferì la cittadinanza onoraria.

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