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Il docufilm “Il Principe libero” su Fabrizio De André in onda sulla Rai ha avuto strascichi polemici per aver messo come protagonista un attore (Luca Marinelli) con spiccato accento romanesco invece che ligure.
Molti genovesi non hanno gradito e personalmente sono d’accordo con loro. Va ricordato che Genova è sempre presente nelle canzoni di Fabrizio (“La città vecchia”, “Via Del Campo”, “Creuza de mà”, “Dolcenera” sull’alluvione genovese del 1970, “Megu Megùn”, e perfino la piccola stazioncina di Sant’Ilario di Nervi in “Bocca di Rosa”). Del resto, molto del repertorio “etnico” del cantautore, è stato cantato in antico dialetto genovese.
Peccato inoltre, non aver potuto ascoltare nel corso delle due puntate una canzone intensamente poetica come “Per i tuoi larghi occhi”, dedicata a Maritza, donna slava assai bella ma di facili costumi, della quale, pare, si fosse innamorato – la cui prima strofa è stato letta su un foglietto da Luca Marinelli (il De André nella finzione) –, ma non cantata.
Altre cose vale la pena di scandagliare su questo cantautore da molti considerato “il più grande”. Innanzitutto è davvero così?
Il personaggio è certamente ricco di fascino e di carisma e ha in sé qualcosa di indefinibile. Il fatto che non si esponesse affatto ai media e in particolare alla tv, ne ha prolungato senz’altro l’aura. Di famiglia assai facoltosa (suo padre era un dirigente dell’Eridania), abitava in un signorile palazzo liberty fronte mare di proprietà della famiglia affacciato in Corso Italia, il lungomare che si snoda dalla Foce fino a Boccadasse.
Si arruolò nelle file dell’anarchismo storico di Carrara frequentandone i circoli, forse come gesto di ribellione al suo ambiente. Bazzicava tanto gli ambienti della Genova-bene, quanto il sottoproletariato dei “caruggi”. Non ultimi anche i “travestiti” di Via Del Campo, vicolo dove esiste da qualche tempo un negozio-museo dedicato a lui.
Non sfugge però il tentativo da parte di quei media che tanto temeva e detestava, di farne un’autentica agiografia, quando in realtà è un artista fatto di luci ed ombre, come tanti del resto. Francesco De Gregori che fece collaborazioni con lui lo disse in alcune interviste, come pure confermò il suo carattere burrascoso e difficile, aggravato dal fatto che fece uso e abuso di alcolici. Famosa fu una sua rissa in una discoteca genovese in voga in quegli anni “Lo Psichedelik” nella quale spaccò gli arredi interni. L’indomani fu in prima pagina sul quotidiano ligure “Il Secolo XIX”.
Lo stile di vita da eterno “maudit”, una sorta di Cecco Angiolieri moderno (mise in musica – guarda caso – “S’i fossi foco” tratta da un sonetto di Cecco, e “La Ballata degli impiccati”, ispirato al “Bal des Pendus” di François Villon, altra pecora nera), non faceva che accrescere la sua leggenda.
“De André – ha detto De Gregori ai microfoni di Start (Radiouno Rai) – si è circondato di collaborazioni, quindi ciò che è ascrivibile direttamente a lui spesso non è la gran parte del suo lavoro. Questo non gli toglie nulla, perché se non avesse avuto quell’autorevolezza insita nelle sue corde vocali la musica italiana sarebbe molto, molto più povera”. Aggiunge: “Per me De André resta una grande voce narrante. Ma a volte si sentono dire cose iperboliche. Credo che questo non faccia bene né a lui né alla gente che deve capire e ascoltare. E credo che non sarebbe piaciuto neanche a Faber”.
Sui frutti di collaborazioni più allargate spesso attribuite solo a lui in esclusiva è senz’altro vero. La canzone “Fila la lana”, ballata medievale di Robert Marcy (“File la laine”) non compaiono crediti e gli viene attribuita in esclusiva. In questo caso è doveroso parlare di plagio. Ma ciò accadeva spesso e volentieri negli anni pionieristici del “vinile”, e quel che ieri si poteva fare (copiare e attribuire a sé), oggi con le nuove leggi del mercato discografico sarebbe impensabile. Va inoltre detto che nella Karim, casa discografica per la quale Fabrizio incideva, suo padre Giuseppe aveva delle quote.
I rapporti tra lui e uno dei suoi liricisti, l’anarchico Riccardo Mannerini, altro personaggio leggendario della Genova bohémienne che compare anche nella fiction con occhiali scuri per coprire la sua cecità, non furono sempre facili, dato che i due erano temperamenti “caratteriali”. Col poeta anarchico reso cieco a causa di un incidente su una motonave che ebbe una fuoriuscita di vapore caldissimo da una turbina compromettendone la retina degli occhi, Fabrizio collaborò all’ Lp “Tutti morimmo a stento” che resta ancor oggi un buon lavoro, e in particolare al pezzo “Il cantico dei drogati”. In questa raccolta c’è pure “Inverno”, una struggente ballata sulla fine dei sentimenti.
Ma collaborò con lui anche all’ Lp “Senza orario e senza bandiera” dei New Trolls, altra band leggendaria genovese. In ogni caso dopo una grande amicizia e sodalizio tra i due ci fu un brusco distacco definitivo, la cui causa non ci è dato di sapere. Anche qui si vociferava che Fabrizio non pagasse i “diritti” al povero Mannerini, per il suo apporto. La sua aria svagata di eterno “enfant gâté” molto concentrato su sé stesso, gli impediva forse di preoccuparsi troppo degli altri dei quali pure aveva bisogno.
Ma andiamo avanti con il repertorio musicale e le accuse di “plagio”. La “Canzone dell’Amore perduto” è interamente costruita sull’adagio di Georg Philipp Telemann “Concerto in Re maggiore per tromba, archi e continuo”, uno fra i massimi esponenti della musica barocca. Sia l’incipit iniziale sia il modulo musicale provengono da lì. Ma qui, si tratta di musica classica e nessuno può rivendicarne “le royalties”.
Di converso invece si dice che Georges Brassens fosse molto contento della traduzione fatta da De André su “Il Gorilla”, canzone interamente del cantautore francese, al quale De André si è ispirato in gioventù, specie nel repertorio dei primi anni sessanta. “La città vecchia” ad esempio, deve molto, per atmosfere e contenuti, a “Le Bistrot” di Brassens. “Il Testamento” comparso nel lontano 1962 quando ancora si firmava Fabrizio senza il cognome, è ispirato a “Le Moribond” di Jacques Brel, considerato un altro dei suoi maestri.
“Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” si snoda su una ballata medievale ripescata dalla cantautrice provenzale Anne Sylvestre (non compare nei crediti del disco) su liriche dell’amico Paolo Villaggio.
Veniamo a “Via del Campo”. La musica è attribuita a Enzo Jannacci in quanto è l’aria di una sua canzone del 1965 “La mia morosa la va alla fonte”, che faceva parte di uno spettacolo teatrale e che Jannacci incluse successivamente nell’album “Vengo anch’io. No, tu no”. Sul vinile, nell’etichetta è riportata la scritta: «Da una musica del ‘500 (XVI secolo) tratta da una ricerca di Dario Fo». In realtà Fo-Jannacci la scrissero insieme. Credendo forse si trattasse di un’aria del ‘500, De André la fece sua con altre parole, quelle dedicate alla giovane prostituta del caruggio genovese. Dopo le rimostranze jannacciane, le parti raggiunsero infine, un concordato: testo di Fabrizio De André su musica di Jannacci.
Ho ascoltato “La mia morosa la va alla fonte” in originale. Probabile che se fosse rimasta a Jannacci, non avrebbe ottenuto il successo del brano riadattato da De André. Ma possiamo dire che anche questa fu una… manchevolezza da parte del mitico Fabrizio?
Si scatenano sul web le cacce al plagio del suo repertorio e su You Tube è possibile rintracciare una “Summer 68″ che è molto simile al “Fiume Sand Creek”. Più lenta la prima, più sostenuta nel ritmo la seconda di De André.
La sottoscritta scrisse tutte queste precisazioni puntuali e verificabili in un forum musicale on line, prendendosi un mucchio di insulti dai fan del Faber (come lo chiamava affettuosamente il suo amico Villaggio). Non me ne dolgo. Quando una leggenda prende il volo la gente ha bisogno di crederci fino in fondo e il mito è sempre più forte della verità.
Per tornare a De André, meritava davvero tutta quest’aura che lo attorniava e lo attornia a tutt’oggi? Risposta: i miti non si meritano, vivono di vita propria e la nostra è un’epoca fatta di mitologie. Forse ha ragione Mogol che alla sua morte, pur lodandone i pregi tra i quali una voce profonda ed espressiva rimasta inalterata, nonostante il tabagismo, disse: “Ha inoltre avuto la fortuna di avere una consorte favolosa”. E ora Dori Ghezzi con la quale divise il drammatico rapimento da parte dell’Anonima Sequestri sarda, mantiene in piedi questa sorprendente fabbrica del mito che sta funzionando a meraviglia, un modo per non perdere l’uomo tanto amato.
Ma ha anche qualche ragione De Gregori quando lascia comprendere nelle sue dichiarazioni che è stato un ottimo organizzatore del lavoro altrui.
Fabrizio De André menestrello anarco-individualista alto borghese che non si esponeva troppo ai media ed era terrorizzato dai concerti dal vivo e dalla presenza del pubblico (concerti ne fece pochi) è riuscito in un altro prodigioso intento: imporre il Fascino discreto della Borghesia in piena epoca di contestatori marxisti, di rivoluzionari dalle barbe folte, di autonomi e di eskimi, sempre in tumulto. “L’Unico e la sua proprietà”, testo di Max Stirner che fece parte delle sue letture di culto, prevalse decisamente su Marx anche nella vita privata.
Nonostante le collaborazioni molteplici delle quali si è avvalso e che hanno impreziosito il suo lavoro (PFM e Mauro Pagani, Riccardo Mannerini, i New Trolls, Massimo Bubola, Fernanda Pivano per l’Antologia di Spoon River, il citato De Gregori, ecc.), alla fine è pur sempre lui che prevale quasi come un divo cinematografico: ciuffo spettinato, strabismo nello sguardo, sigaretta sempre accesa all’angolo della bocca, voce inconfondibile.
Morì a 59 anni nel 1999 per un carcinoma al polmone dovuto probabilmente all’eccesso di fumo e a una vita “senza orario e senza bandiera”. Non poté vedere il nuovo secolo e di questo è assai probabile che ne sarebbe stato contento.
“Quando la morte mi chiamerà forse qualcuno protesterà dopo aver letto nel testamento quel che gli lascio in eredità…”
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