Le opere d’arte, in particolare quelle pittoriche, non sono mai indeterminate al punto da risultare indecifrabili a un osservatore attento, autonomo e consapevole (tali non sono né chi ama guardare senza vedere, né gli attuali ascoltatori che si fanno colonizzare la vista dai commenti prestabiliti dei compilatori di audioguide o ripetuti a memoria da pappagalli ammaestrati).
Neppure nell’arte contemporanea un dipinto rappresenta soltanto se stesso, al di fuori di ogni significato. Semmai oggi il significato è manifesto e strappa un sorriso, ma l’opera non c’è più, come nell’arte concettuale.
Tuttavia molte opere ci risultano enigmatiche. In molti casi i significati simbolici si sovrappongono, e il più immediato a cogliersi ne nasconde altri più complessi e sofisticati da riconoscere. Talvolta, infine, questa stratificazione di significati somiglia a un percorso iniziatico, oppure a un rimbalzare curioso entro un prisma dove ogni faccia richiama via via le altre.
Il compito interpretativo dell’osservatore è un cammino che torna più volte alle immagini. All’iniziale funzione di globalizzazione (nel senso dato a questo termine da Decroly), ossia la percezione d’insieme, segue una funzione di scomposizione (l’analisi mediante descrizione degli elementi fondanti del dipinto).
Ad ambedue queste funzioni si applica la domanda elementare: «Cosa si vede?». La domanda ritorna più volte, perché non investe solo gli oggetti rappresentati nel dipinto, ma il loro comporsi in più trame: la modalità narrativa; l’architettura dello spazio; la luce; le scale cromatiche; le relazioni tra gli elementi. Nel mentre scomponiamo l’opera in cerca di nuovi dettagli significanti torniamo più volte al dipinto nel suo insieme, ricomponendolo con gli elementi che abbiamo scoperto. I processi percettivi si rinnovano, e ci aprono così nuove prospettive.
Solo in quel momento abbiamo davvero necessità di ulteriori notizie e di altre immagini – e ormai possiamo soddisfare quel bisogno ovunque e in pochi istanti, a condizione che si sappia navigare oltre gli Scogli della Banalità di Wikipedia e di altri siti di divulgazione un tanto al chilo. Il web in questo ci soccorre, ma ci è anche nemico.
L’arte è anzitutto un’autobiografia collettiva fatta di continuità, svolte e rotture. Per questo secondo giro di letture non basta chiedersi: «Cosa l’artista voleva che vedessi?» (ammesso che volesse qualcosa da un pubblico astratto e non dal committente o da se stesso).. Dobbiamo poter entrare in questa «autobiografia».
Nessun osservatore avvertito è del tutto ignaro dei significati iconologici che si sono deposti, sovrapposti o opposti nel tramandarsi e rinnovarsi della storia delle immagini e dei simboli; prima di cercare dei rimandi fuori di noi, cerchiamoli in noi.
Una volta entrati in questo «noi stessi» collettivo, il nostro baricentro si sposta, anzitutto sul piano emotivo, dal sentirci un punto instabile che è giunto davanti all’opera attraverso un lungo passato alla proiezione personale su un presente ermeneutico. L’osservatore prende atto che la sua osservazione non è solo parte di una storia iconografica che gli si è deposta dinanzi nelle vesti di «tradizione» che precede, accompagna e segue il contesto storico e biografico dell’artista, ma è anche quella di un interrogante e di un ermeneuta singolare, che legittimamente sovrappone alla domanda originaria una sua propria domanda: «Io cosa vedo?».
Fisicamente, avanzeremo quanto basta per cogliere i particolari o le sfumature del dipinto, e arretreremo per meglio osservarne l’insieme e la profondità. Solo in ultimo, per completare il percorso, ci serviranno le relative informazioni storiche e tecniche.
Formulare un modello di percezione potenziata dalla riflessività non è né semplice né, probabilmente, utile. Mi limito a cercare di accompagnarvi sommariamente dentro un’opera tanto celebre quanto enigmatica, i Tre filosofi di Giorgione (1506-08, Kunsthistorische Museum, Vienna; il titolo è del 1525). Le interpretazioni del dipinto hanno generato varie scuole di pensiero. Ma dal nostro punto di vista le interpretazioni non sono la porta migliore per accedere al dipinto. In prima istanza dobbiamo cavarcela da soli, senza nozionismi o intellettualismi più o meno congrui o eruditi.
Anzitutto vediamo un dipinto con tre austeri protagonisti, abbigliati con fogge e colori distinti e appartenenti a tre epoche e generazioni diverse. Il giovane è un contemporaneo, veste in libertà ed è a capo scoperto; l’adulto sembra essere un pensatore alessandrino con due tratti distintivi, un cappello orientale e un ricercato ciondolo al collo; il vecchio un antico greco con abiti sobri ed essenziali.
I personaggi sono tutti collocati nel lato destro del quadro, su piani leggermente sfalsati dai gradini naturali che seguono l’andamento del terreno. I tre sono giunti a un bivio da oriente e devono decidere dove andare. Tutti sono assorti, immersi nei propri pensieri.
Il giovane, seduto sul gradino più alto, e l’anziano guardano frontalmente; l’adulto si volge in modo obliquo verso la destra di chi osserva e il calcagno destro sollevato sembra accennare a un movimento che sta per concludersi. Il dettaglio ci dice che i tre convengono in quel punto non solo da epoche ma anche da strade diverse, e sono colti nell’atto fittizio di scoprire una meta comune. Il giovane scruta servendosi di un compasso; l’anziano si affida a una pergamena con astri e calcoli; l’adulto sembra incerto sul da farsi.
Le due metà del dipinto sono separate da un tronco rinsecchito, cui si oppongono a destra una vegetazione fitta e lussureggiante e a sinistra un giovane virgulto, e da un ampio panorama retrostante, una verde vallata dove si intravedono un edificio rurale e il campanile di una chiesa.
Nella campitura a sinistra intravediamo, quasi del tutto in ombra, una parete di terriccio e pietre tenuta insieme dalle radici degli alberi. Al centro della parete si apre una cavità oscura, sopra la quale si intravede una luce, non viva ma calda.
La luce sul fondo che narra «il qui e l’ora» della scena indica l’alba, data la posizione del sole e la luminosità del cielo. Quella da sinistra che irraggia i protagonisti marca l’intemporalità in cui i tre si situano.
Ma è la terza, quella sopra la cavità, che attira l’attenzione del giovane. Per interpretare il dipinto disponiamo dunque di tre elementi cruciali: l’ambivalenza della luce; l’architettura compositiva; l’intuitivo simbolismo della vegetazione. Tre indizi per tre personaggi, tre epoche, tre età biologiche degli uomini e degli alberi, tre partizioni spaziali, tre luci, tre gradini…
La soluzione è a portata di mano. L’unico a disporsi verso il nuovo (la luce insieme temporale ed eterna sopra la cavità) è il giovane, mentre l’adulto appare spaesato e il vecchio non dispone più di un sapere utile. Sono dunque i Re Magi sulla via di Betlemme. Solo Gaspare, il più giovane, sembra presagire davvero cosa lo attende e come raggiungerlo.
Ma il dipinto contiene anche altri rimandi, e si configura come un’allegoria stratificata del tempo. In coerenza con il Vangelo, la luce segna uno spartiacque tra un prima e un dopo, o – meglio – tra la ciclicità del finito, l’eterno indistinto e l’eterno che si invera nella storia. Ma non necessariamente si tratta solo del prima e del dopo Cristo. Vi è un cenno al rigenerarsi della vita in ambito biologico e spirituale che cela il tema della superiorità dei moderni sugli antichi. Vi è una linea idealizzata nel succedersi dei monoteismi che esula dalle religioni positive per alludere alla potenza della ragione. Il ripetersi della scansione ternaria sembra così alludere a tre distinte epoche che hanno stratificato il sapere umano nei momenti in cui la filosofia ha incorporato le matematiche e l’astronomia: il pitagorismo o il platonismo, l’ellenismo, l’umanesimo.
Anche le identità di almeno due dei tre scienziati possono aprirsi a variazioni: nulla vieta di sovrapporre al filosofo e astronomo greco un sapiente ebreo, l’uno e l’altro precursori del cristianesimo, secondo il pensiero rinascimentale; a Melchiorre in veste tolemaica, potremmo sovrapporre un pensatore arabo di indirizzo averroista, molto stimato tra gli umanisti.
Ma neppure ora possiamo fermarci. Torniamo ancora una volta al dipinto per notare meglio la foggia e i colori degli abiti. Qui o ci soccorre l’erudizione o non potremmo procedere. Si tratta di tre umanisti che praticano un sapere occulto, forse di tipo neopitagorico; il giovane è il neofita; l’adulto è chi già è introdotto, l’anziano è il maestro.
Siamo ormai ben oltre il tema biblico, nel pieno di una composizione di significati. Siamo nel culmine dell’ambivalenza dei linguaggi pittorici quali solo un pittore dotto o un dotto committente poteva realizzare, al punto da far convivere un messaggio biblico essoterico (il cammino dei Magi), un messaggio culturale per addetti ai lavori (il cammino sapienziale degli scienziati) e un messaggio esoterico (il cammino iniziatico).
Quel che colpisce in Giorgione (in particolare nella Tempesta), è l’equilibrio tra l’elemento misteriosofico collocato sotto gli altri due strati e l’enigmaticità che l’immagine nel suo insieme ci restituisce.
La sua forza, almeno per me, è che questo percorso nell’ambivalenza non decifra mai compiutamente l’intero, e lascia così integro e inesaurito il fascino del dipinto, che resta nello stesso tempo coltissimo e refrattario a un’intellettualizzazione per anime pedanti.
La pittura, ripensata come pratica esistenziale, ci insegna a osservarla sospendendo il principio di non contraddizione; una sospensione ben più forte dell’ancora corrente idiozia del realismo. E questo quasi mezzo millennio prima di Magritte, Delvaux e Dalì.
Una volta saputo questo, possiamo tornare all’opera per godercela come pittura: composizione, spazio, forme, colori, toni, accostamenti e tecniche. L’atto del piacere è quello finale in cui finalmente si guarda imbambolati senza pensare dopo aver passeggiato a lungo nell’opera. L’accantonamento dell’analisi è il punto d’arrivo: dallo sguardo interrogante alla visione pura.
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