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Ambiente

NON ALZARE BANDIERA BIANCA

ARTURO BORTOLUZZI - 16/02/2018

Il castello di Belforte

Il castello di Belforte

Non posso rimanere zitto davanti al possibile, prossimo, ulteriore crollo di porzioni in Comune di Varese, del Castello di Belforte e in Comune di Busto Arsizio, delle Cascine di Malavita e Burattana.

Non posso farlo, perché sono immobili pubblici e ritengo quindi, a norma di Costituzione, di esserne comproprietario come qualunque altro cittadino.

Sono cascinali e castelli con appassionanti storie da raccontare, in particolare, il maniero di Belforte.

È imperdonabile che chi sia stato chiamato ad amministrarci li abbia persi con la propria inazione. Gli immobili negli ultimi trent’anni sono stati oggetto di un lento, ma continuo, inesorabile cadere in rovina, costituito da piccoli crolli. Questo avrebbe dovuto costituire un avvertimento verso coloro che reggono le istituzioni. Neppure questi sono, invece, serviti a motivarli a intervenire. Scrivo così degli amministratori del Comune di Busto Arsizio e del Comune di Varese, che hanno dimostrato tanto disinteresse e poca passione per quel che facevano, da non tenere neppure quei piccoli comportamenti che avrebbero potuto comandare venissero fatti. Non solo, evitavano di confrontarsi con la società civile e con altre istituzioni.

Essi hanno sempre voluto agire da soli e non hanno mai voluto fare squadra. Se invece così avessero fatto, avrebbe potuto aumentare considerevolmente il valore attuale del proprio patrimonio immobiliare storico.

Come penso, sarebbe stato opportuno, dovevano valorizzare i propri immobili e poi coinvolgendo altri Comuni (ad esempio Gallarate), metterli in relazione l’uno con l’altro per creare opportunità di sviluppo turistico. Hanno invece voluto dimostrarsi così cocciuti da voler portare in avanti da soli un progetto di recupero. Si è così riusciti, a perdere importanti segni del passato.

Dico ai Sindaci del Varesotto: “Facciamo squadra” ed evitiamo di buttare via altre preziosità. Il fare squadra è un’operazione in parte persa, ma ancora necessaria. Essa però, non può essere un’azione immediata. Occorre coltivare e guadagnare la fiducia degli altri. Ci vuole tempo per conquistarla.

I Comuni sono chiamati a ricoprire un ruolo diverso dal passato in cui abbondavano di danari e potevano far da soli. Ora devono essere dei coordinatori e degli stimolatori, capaci di coinvolgere enti pubblici e privati e di far partecipare ad ogni proprio progetto gli stakeholders del territorio.

Dovrebbe, quindi, essere invogliato il potere a trovare interessati a essere coinvolti e a mettere in relazione le persone, di appassionarle ai progetti e di invogliarle alla partecipazione.

Era vero prima, lo è ancor più oggi grazie alle nuove tecnologie digitali che aumentano la capacità di relazionarsi. Non sempre queste sono la discriminante per la nascita di un’esperienza che può apparirci dirompente. Ci sono buone pratiche che nascono dal basso e che non hanno che bisogno, non di innovativi strumenti, ma di fiducia e di un luogo in cui formarsi per poter emergere.

La progettazione partecipata, che vorremmo promuovere, nasce, prima di tutto, da uno snodo di relazioni: relazioni interpersonali, relazioni tra i diversi ambiti professionali e relazioni tra le competenze coinvolte. A mantenere la rotta, deve essere una visione comune di progetto. Questa è, nella fattispecie, la progettazione partecipata: un grande esercizio di cittadinanza. Coinvolgendo attivamente tutti i portatori di interesse (impiegati, partner, clienti, cittadini, utenti finali, rappresentanti delle associazioni del terzo settore e delle associazioni presenti al tavolo delle parti sociali) nel processo di progettazione, si creeranno tutte quelle connessioni che garantiranno che il progetto risponda ai bisogni dell’utente che ne usufruisce, abitando in un territorio che vede aumentare i propri indici di qualità della vita.

Al centro ci dovranno essere le istituzioni, ma il loro compito come si è detto deve essere più limitato rispetto al passato. Non dovranno fare. Dovranno, sotto la loro guida, far fare.

Nella progettazione, andranno, insomma, coinvolti i cittadini. Certo occorrerà andare oltre il modello della partecipazione spontanea, come è stata, in molte occasioni, la nostra, che troppo spesso è stata caratterizzata da molto entusiasmo e da idee che riteniamo innovative, affiancate, per mancanza di un rigore, da cocenti delusioni. Va attuato un modello di partecipazione organizzata, in cui siano ben chiari i processi decisionali, gli obiettivi strategici e la quantità e qualità dei risultati”. In questo modello una forte rilevanza è data all’elemento “imprevisto”: spesso alcune soluzioni non sono mai state adottate perché il pensiero dei politici non le aveva colte come opportunità, non le aveva rilevate come esigenze.

La metodica che proponiamo pare aver il rischio di apparire utopica, ma non lo è.

È la politica che pare, invece, aver perso il suo scopo di mezzo.

Non deve essere considerato utopico il sentire da parte della politica il popolo sovrano già nella fase preparatoria alla decisione finale in conformità proprio con la Costituzione italiana.

Sfruttiamo così l’Internet veloce che Varese ha avuto il privilegio di poter avere tra le prime città italiane.

Come dice Salvatore Settis: “C’è un orizzonte dei desideri di cui non possiamo sbarazzarci liquidandolo come ‘utopia’. Destati dal letargo dal sinistro galoppo della crisi, noi italiani spiamo ansiosamente un domani sempre più incerto. Sempre più frequentemente intuiamo dove sono i problemi, prendiamo coscienza delle loro dimensioni e della povertà delle soluzioni offerte dalla nomenklatura della politica, proviamo a immaginare altre strade, a costruire altri ideali. Raramente elaboriamo una visione d’insieme, ancor più raramente riconosciamo quanto sia vitale tener d’occhio la dimensione globale e quella nazionale dei problemi per trovare risposta ai nostri bisogni. Il traguardo che ci poniamo è, come detto sopra, un futuro migliore per noi stessi, per i nostri figli, per i figli dei figli dei figli. Vogliamo campagne ben coltivate, cibo di qualità, città bene ordinate, un ambiente sano, un paesaggio improntato all’armonia e alla bellezza, una sanità pubblica funzionante, una scuola che educhi alla responsabilità e alla cittadinanza. Vogliamo più equità, più lavoro, più giustizia, più libertà, più cultura, più educazione, più ricerca, più democrazia. Perché questo sia possibile, è essenziale ritrovare un senso potente e diffuso del bene comune, cioè del capitale sociale che stiamo sperperando.
Quest’orizzonte dei desideri può apparirci irraggiungibile, ma non è un’utopia astratta. Corrisponde a un progetto per l’Italia, il progetto della Costituzione, dove la tutela dell’ambiente, della cultura, dell’arte, della ricerca si annoda ad altri valori: libertà, uguaglianza, diritto al lavoro, diritto alla salute. Ha ragione Calamandrei: ‘La Costituzione è ancora incompiuta ma è un progetto concreto, e proprio per questo tocca a noi portarlo a termine. Questo è l’orizzonte verso cui dobbiamo camminare: l’orizzonte della legalità, l’orizzonte della democrazia. La Costituzione siamo noi, i cittadini. Spetta a noi lottare perché essa non sia un’utopia destinata a morte certa, ma diventi la vera agenda della politica.’ Facciamo dell’utopia una realtà.

Cosa vorrei? Per il futuro certamente un maggiore senso di responsabilità da parte di chi ci amministra perché il patrimonio che gestiscono venga valorizzato e fatto partecipare a partire dal Castello di Belforte e dalle cascine di Busto Arsizio.

 

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