Lo scorso 24 luglio è scomparso a Sesto San Giovanni, dov’era nato nel 1939, Giovanni Bianchi, esponente del cattolicesimo sociale prima nell’ambito del sindacato, quindi in campo politico, intellettuale di particolare coerenza e spirito di servizio.
Laureato in scienze politiche con una tesi sulla dimensione economica delle missioni cattoliche in Africa, docente di storia e filosofia nei licei, appartiene a una generazione profondamente segnata dalle istanze del Concilio Vaticano II di liberazione della fede da schemi prefissati e nel caso preoccupata dell’annuncio cristiano in una società industriale avanzata. Essenzialmente laicale in lui la dimensione della fede confortata dall’insegnamento di grandi maestri, il gesuita Pio Parisi, assistente spirituale delle Acli nazionali, il padre costituente Giuseppe Dossetti, l’arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Maria Martini.
Il primo lo cresce nella concezione che la vera politica è resistenza, nell’essere minoranza e controcorrente pur nella fedeltà ai principi (vedi l’esempio di Francesco e della sua kenosis). Il secondo rafforza in Bianchi la convinzione che radicalità religiosa e pratica della politica, non intesa soltanto in termini di conquista, difficilmente si congiungono in un mondo dominato dal male, non inestirpabile e ineliminabile, com’è della zizzania evangelica. Il terzo, la cui frequentazione risulta per lui decisiva, gli apre le prospettive di quella categoria del discernimento, che significa lettura degli eventi storici a partire dalla parola di Dio.
Di valido conforto altresì il rapporto con il domenicano Marie-Dominique Chenu, teorico del movimento operaio come luogo teologico, del ruolo dei partiti per non parlare dell’eredità sturziana.
È in Sturzo, nella sua lezione che Bianchi trova un modello di rigenerazione della forma partito fondata su tre criteri fondamentali: autonomia dallo Stato e dalla Chiesa; un programma a risoluzione della crisi determinata dal progressivo esaurimento del ruolo dei partiti della prima Repubblica (gestione del potere fine a se stesso) in chiave solidaristica e popolare; l’idea che la mediazione appartiene al sistema politico, mentre l’efficacia dell’esecutivo è misurata dalla verifica dell’elettorato.
Al centro ci deve essere non un’ideologia, bensì un programma. Bianchi propone un partito riformatore di massa in una democrazia dell’alternanza. Si deve elaborare un’alternativa popolare al populismo nell’incontro tra le grandi culture riformatrici.
L’attenzione ai problemi internazionali è accesa dalla passione per la dinamica tra Nord e Sud del mondo e dal diffuso movimento per la pace (in relazione alle due guerre del Golfo, alla tragedia dell’ex-Iugoslavia): movimento per la pace e movimento per la democrazia si corrispondono.
Giovanni Bianchi, elemento di moderazione e di correttezza, d’equilibrio nel costante rifiuto d’ogni logica settaria, sviluppa prima la sua attività nelle Acli milanesi dal 1972 (il Congresso nazionale di Torino del 19-22 giugno 1969 ha decretato la fine del collateralismo con la Dc e la libertà di voto, con il ritiro del consenso della Conferenza episcopale e la deplorazione di Paolo VI): vi occupa per tredici anni l’incarico di presidente provinciale, è vice-presidente nazionale nel 1985, presidente dal 1987 al 1994, sempre all’insegna della politicità del civile.
Nel 1991 le Acli aderiscono ai referendum coordinati da Mario Segni per la riforma elettorale in senso maggioritario a svecchiamento del sistema. Nel Congresso straordinario di Chianciano Terme (1993) si affaccia la prospettiva di un movimento riformatore, che veda le forze del neonato Partito popolare affiancarsi in un cartello alla sinistra democratica (in Prodi il possibile unificatore).
Qui il passaggio alla politica attiva: Bianchi è eletto deputato del Ppi nel 1994 e successivamente presidente del partito, mentre l’ala destra, capeggiata da Rocco Buttiglione, si scinde sul tema delle alleanze. Bianchi assume un ruolo decisivo nell’orientare il partito verso quello che sarà l’Ulivo. Esce dal Parlamento nel 2006 contribuendo alla nascita della Margherita e infine alla creazione del Partito democratico, divenendone il primo segretario metropolitano milanese nel 2007.
Nessun atteggiamento nostalgico comunque, nonostante le riserve apertamente espresse. Uomo del dialogo, non lo è però della negoziazione, che mira per ognuno a ricavare la propria porzione della torta comune. Il conflitto delle idee non va temuto, né ignorato, ma accettato.
Di lui degna d’attenzione, tra tante altre, l’opera Resistenza senza fucile, Milano 2017. Sottotitolo: Vite, storie e luoghi partigiani nella vita quotidiana. La memoria dei fatti della Resistenza senza odio è un modo per creare un punto di vista, per andare avanti.
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