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Attualità

SCORCIATOIA DEL DOPING

CESARE CHIERICATI - 16/02/2018

dopingIl problema è vecchio come il ciclismo, almeno come il ciclismo moderno che a partire dal dopoguerra va a incrociare la medicina e scopre che la simpamina, la stenamina e la caffeina in dosi massicce non ti fanno diventare un campione, ma aiutano eccome.

C’è una famosa intervista a Fausto Coppi in cui alla domanda “quanto serve la bomba?” egli risponde “per andare forte e vincere quasi sempre”. Come dire che la “necessità” di un “aiuto” appartiene già al ciclismo dei primi anni ’50, quello della nascente modernità che scatena la passione di milioni di persone e che, anche senza televisione, attira l’attenzione della prima pubblicità su scala internazionale.

Dunque un ciclismo che per trovare l’equilibrio tra costi e ricavi – i grandi campioni percepivano ingenti somme già allora – infittisce i calendari, riduce le distanze ma alza considerevolmente le medie diventando sempre più stressante sul piano atletico e nervoso. Il ricorso alle anfetamine fu quasi uno sbocco inevitabile come hanno confermato in anni recenti anche i gregari di alcuni grandi campioni di quell’epoca straordinaria.

Certo in confronto a ciò che accadrà nei decenni successivi si tratta di peccati veniali, ma gli aiuti farmacologici diventano un compagno di viaggio che va di pari passo con l’inasprirsi della disciplina e la ricerca forsennata delle prestazioni. Tra le leggi antidoping – la prima organica è del 1971 – e gli “aiuti” comincia pertanto una rincorsa senza fine che passa attraverso l’uso di anfetamine sempre più sofisticate e poi a seguire il cortisone, gli ormoni della crescita, l’insulina, la morfina, le autoemotrasfusioni e via elencando. Fino all’approdo all’eritropoietina nelle sue diverse declinazioni di laboratorio. La sostanza regina degli ultimi trent’anni, un ormone che moltiplica i globuli rossi nel sangue migliorando nettamente le prestazioni agonistiche. Insomma il ciclismo di Frankenstein propiziato da medici che hanno messo in soffitta il giuramento di Ippocrate e i codici etici della categoria.

L’epo risulterà fatale a tanti celebrati campioni allorché -fine anni ’90- diventano più stringenti i controlli e le indagini dopo decenni di silenzi e lunghi dinieghi da parte di tutte le parti in causa. Dalle inchieste poliziesche e giudiziarie emerge che gli “aiuti” non sono semplici episodi ma le spie di un sistema diffuso che si avvale anche della complicità più o meno interessata del circo mediatico che racconta lo sport delle due ruote. Di più, la pratica illecita diventa costume, normalità, disinvolta condotta del “così fan tutti” sempre più estesa ai giovani e ai giovanissimi.

Se nel mondo professionistico inchieste, nuove regole e controlli stringenti hanno portato nell’ultimo decennio a risultati apprezzabili, altrettanto non si può dire del mondo dei dilettanti e di quello amatoriale. È di venerdì delle settimana scorsa la notizia della scoperta a Lucca di un giro di sostanze dopanti somministrate ad atleti, spesso giovanissimi, in una insospettabile società sportiva dilettantesca: 17 gli indagati, 6 gli arrestati. Tutto è partito, nel maggio scorso, dalla morte di un giovane ciclista lituano Rinas Rumsas, 21 anni, figlio di Raimondas, ex campione di alto livello già coinvolto e condannato per problemi di doping come l’altro figlio, pure lui promessa del ciclismo, sospeso di recente dalle competizioni per quattro anni.

Dall’episodio di Lucca emerge un quadro assai preoccupante. Le cifre fornite dall’Istituto superiore di sanità dicono che circa il 3% dei ragazzi controllati (dilettanti e baby) è risultato positivo all’uso di farmaci anche se non sempre si tratta di prodotti fuorilegge. Più o meno lo stesso discorso vale per gli sportivi amatoriali. Ciclismo e culturismo le discipline individuali più a rischio. Il che dimostra che si tratta di un male radicato in profondità, risultato perverso di una malintesa cultura della scorciatoia farmacologica e del successo a tutti i costi. Per interposti farmaci si punta a tagliare i tempi naturali della maturazione atletica e mentale dei ragazzi provocando danni fisici e di personalità talvolta irreparabili.

Una responsabilità in capo alle società sportive, ma che chiama in causa anche le famiglie spesso distratte e talvolta addirittura complici.

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