Difficile esprimere un commento originale sui fatti di Macerata: è già stato detto tanto.
Ne hanno parlato politici, sociologi, psicologi, antropologi, e anche poi uomini e donne della strada, cittadini inorriditi, amministratori allibiti e increduli. Ogni persona ragionevole ha deprecato il gesto del giovane Luca che ha sparato sui “neri” per fare giustizia.
Ma a me resta, ancora intatto, l’orrore per il gesto insano di quel venticinquenne.
Tristezza per il tricolore vilipeso, la nostra povera bandiera avviluppata al corpo di un uomo in pieno delirio razzistico.
Pena per gli innocenti feriti solo perché neri.
Compassione per gli abitanti di una tranquilla città di provincia, sgomenti per aver scoperto che alcuni loro concittadini condividono il folle gesto di Luca.
Non riesco a cancellare il disgusto per le svastiche, per i manifesti nazisti, per la copia del Mein Kampf di Hitler nella scarna libreria di una camera tappezzata con i simboli del Male Assoluto.
La morte degli “stranieri”, simbolicamente, avrebbe dovuto vendicare un’altra morte, violenta ai limiti dell’inconcepibile, orribile, disumana: l’uccisione di Pamela, la diciottenne uccisa e straziata, con molta probabilità da un nigeriano, un altro “nero”.
Siamo tornati alla legge del taglione: occhio per occhio, dente per dente.
Siamo regrediti all’età della pietra, quando, però, si uccideva per il possesso di una preda che poteva garantire la sopravvivenza.
Siamo giunti allo sdoganamento dei peggiori istinti dell’uomo, oggi ritornato asociale, regredito ad animale incapace di dominare istinti come rabbia e ira.
Ascoltando e leggendo i fatti, il fatto, di questi giorni, mi è tornata alla memoria, prepotente, la poesia di Quasimodo “Uomo del mio tempo”, del 1947. In questi versi si legge l’orrore per la perdita di umanità degli individui dentro una guerra la cui tragicità è ancora viva.
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
Chi ha seminato tempesta, ha incitato all’intolleranza, ha spinto a cercare le differenze tra le “razze”, si renderà conto di ciò che ha prodotto l’odio, poi dilagato nei social, nei media, sui muri delle nostre città?
Purtroppo oggi mi è più chiaro il termine “hater” che fino a poco fa mi suonava come uno spocchioso anglicismo: hater è un uomo, o una donna, è Luca, che ha scelto di farsi giustizia da solo, di uccidere i “negri”, in nome di una svastica e di un movimento politico già clamorosamente bocciati dalla Storia.
È indispensabile, urgente, inderogabile, chiederci che cosa non abbiamo fatto per questi giovani.
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