Victor Klemperer è stato un filologo tedesco di famiglia ebraica, convertitosi poi al protestantesimo. Dopo il 1935, nella Germania ormai nazista, non poté più esercitare la sua professione (era docente di filologia romanza a Dresda) né poté continuare a vivere nella sua casa (ai tedeschi ebrei, come accadrà anche a quelli italiani, era negata la possibilità di avere proprietà immobiliari). Non conobbe la deportazione nei campi di sterminio e per tutta la durata del regime hitleriano andò annotando, in un suo diario, le sue osservazioni sulla lingua del Terzo Reich, la LTI, cioè la Lingua Tertii Imperii (il volume in questione è oggi pubblicato dalla casa editrice Giuntina).
Con la esclusione dalla vita civile, sociale, economica, con la progressiva riduzione del suo spazio di libertà e con il progressivo restringimento della sua sfera di azione, Klemperer orientò la curiosità del ricercatore e dello studioso verso l’analisi della lingua del tempo in cui era costretto a vivere:
«Cominciai a osservare sempre più attentamente come parlavano gli operai in fabbrica, come si esprimevano le bestie della Gestapo e anche come ci si esprimeva fra noi, noi ebrei chiusi in gabbia. Non si potevano notare molte differenze, addirittura proprio nessuna. Indubbiamente, nazisti e loro avversari, beneficiari e vittime, erano tutti guidati dagli stessi modelli.»
Decise così di analizzare questi «modelli», la costruzione di questa nuova lingua dell’odio, che sembrava penetrare più facilmente e molto più in profondità degli stessi discorsi di Hitler o di Goebbels.
«Qual era il mezzo di propaganda più efficace del sistema hitleriano? Erano i monologhi di Hitler e di Goebbels, le loro esternazioni su questo o su quell’oggetto, le loro istigazioni contro l’ebraismo o il bolscevismo? Certamente no, perché molto non veniva compreso dalle masse, annoiate d’altra parte dalle eterne ripetizioni. […] No, l’effetto maggiore non era provocato dai discorsi e neppure da articoli, volantini, manifesti e bandiere, da nulla che potesse essere percepito da un pensiero o da un sentimento consapevoli. Invece il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.»
Le parole, dice ancora Victor Klemperer, si insinuano nelle nostre coscienze come piccole dosi di arsenico, scatenando un effetto analogo a quanto accade nel processo di mitridatizzazione. Qui, la lenta e graduale assunzione di sostanze tossiche sembra renderci immuni al veleno. Così le parole velenose, assunte poco per volta, assorbite lentamente attraverso i discorsi pubblici e depotenziate della loro tossicità dall’autorevolezza di chi le pronuncia, sembrano risultare, alla fine, innocue e diventano patrimonio comune.
Credo che questo sia capitato anche in Italia negli ultimi venti o trent’anni. La parola “rifugiato”, ad esempio, nell’uso comune che tutti ne facciamo, non rimanda più ad una persona, che «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese». (Questa è la definizione che ne dava la Convenzione di Ginevra del 1951, sottoscritta da 147 Paesi.) La parola “rifugiato”, brutalizzata dagli imprenditori politici della paura, è diventata sinonimo di pericolo, di turbamento sociale.
La parola “migrazione” o “migrante”, che dovrebbe indicare lo stato di chi decide volontariamente di abbandonare il proprio Paese per cercare un luogo dove migliorare la propria condizione, evoca ormai in tutti l’immagine dell’«invasione», dell’aggressione selvaggia al nostro stile di vita e alla nostra sicurezza. (Il secondo comma dell’articolo 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 afferma che «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese».)
In tutti questi anni, quasi senza accorgercene, siamo stati sottoposti ad un lento processo di mitridatizzazione linguistica. Abbiamo accettato passivamente, con un leggero sorriso sulle labbra o tutt’al più reagendo con uno sbrigativo moto fastidio, che qualcuno o qualche gruppo suggerisse di sparare ai barconi che trasportavano persone (ricordate il sindaco di Treviso?); di essere «cattivi» nei confronti dei cosiddetti clandestini (ricordate un certo ministro dell’Interno?); di considerare gli africani, tutti, di razza inferiore (ricordate un certo deputato italiano al Parlamento europeo?); di difendere la «razza bianca», di «spianare con le ruspe» campi nomadi, di cacciare un numero imprecisato di persone dal territorio dello Stato o di una Regione.
«Oggi – scriveva Victor Klemperer – si parla molto di estirpare la mentalità del fascismo e si fa anche molto per questo fine. […] Ma la lingua del Terzo Reich sembra voler sopravvivere in parecchie espressioni caratteristiche, penetrate così a fondo col loro potere corrosivo da apparire come un duraturo possesso della lingua tedesca».
Oggi, potremmo dire noi, si parla molto di antifascismo e si fa anche molto per celebrarne le virtù. Ma la lingua dell’odio sembra voler sopravvivere nel nostro linguaggio comune, continuando a intossicare le nostre coscienze. Alla fine, la tossicità di questa lingua è penetrata dappertutto. Per responsabilità di molti. E non deve stupire che poi qualcuno riversi questo veleno attraverso la canna di una pistola. È già successo e succederà ancora. Credo che prima o poi saremo costretti a chiederci, tutti, non a chi appartenga la pistola fumante che ha sparato, ma a chi è imputabile la parola fumante che ha scatenato la violenza.
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