Tra tante incertezze, affiora una certezza. La destra liberale, riformista, moderata non esiste più. È una gara ad affermare la prevalenza del contrario: l’estremismo, la radicalità, l’insofferenza. Salvini fa il verso alla Le Pen, la Meloni fa il verso a Salvini, Berlusconi fa il verso alla Meloni e a Salvini. Un giorno blandisce l’Europa, il giorno dopo cambia idea perché i sodali (sodali?) dell’alleanza che si oppone a Cinquestelle e centrosinistra han fatto un passo avanti sulla via del populismo. Competition is competition e allora alé a strapromettere e a strabocciare. Strapromettere che cosa? Ogni improbabile bene. Strabocciare chi? Il governo di Gentiloni. La denunzia: come quello di Renzi, non ha saputo controllare l’immigrazione, ed è la causa di ogni disordine/delitto, e non sa difendere l’Italia, e figuriamoci se riesce a svincolarla dai ceppi ottusi dell’Ue. Naturalmente quando al potere stavano il predecessore di Salvini (Bossi), quello della Meloni (Fini) e Berlusconi che è sempre Berlusconi, tutto filava liscio al modo dei barconi che dall’Africa puntavano -anche allora, toh!- sulle nostre coste.
Eccola dunque, la campagna elettorale high (ahi!) profile impostata dagli eredi della destra che fece questo Paese e a lungo seppe amministrarne con sapienza il comando. La destra storica, risorgimentale e poi novecentesca, un po’ conservatrice un po’ progressista, ispirata agl’ideali della libertà, del rigore, della giustizia eccetera. La destra moderata, non nemica della sinistra d’allora, ma di essa l’altra faccia d’una medesima/virtuosa medaglia raffigurante il senso dello Stato, la cultura delle istituzioni, l’etica della responsabilità. La destra che rappresentava, e rappresenta ancora, la maggioranza degl’italiani. La destra che infiammava gli editoriali del sommo Montanelli, e a un certo punto non lo arrapò più perché destituita da un’altra destra. Che sopravvive: la vediamo e sentiamo.
Il guaio grosso del quale pare difficile disfarsi è la sconfitta/perdita di quella provvida moderazione. Misura, stile, autocontrollo, equilibrio non appartengono alla cifra d’un versante politico impegnato a dar prova dell’opposto nella convinzione che tale sia la domanda sul mercato dell’applauso facile e demagogico. Forse glielo suggeriscono i ripetuti sondaggi. Forse una mutazione genetica irreversibile. Forse la pietrosa certezza che il successo dell’eccesso sia senza ritorno, nella società dell’intemperanza verbale, dei comportamenti sopra le righe, degl’internettauti modaioli un tanto al click, della volgarità elevata a merito, altro che squalificata come vergogna.
Per raccogliere consenso ci si attiene al modello che impone d’essere sguaiati e incontinenti: vietato indulgere a comprensione e tolleranza. E sì che la destra dovrebbe aver cara, oltre alla conoscenza storica, la buona letteratura, ricordando per esempio il Misantropo di Molière (“La perfetta ragione fugge dagli estremi e vuole che si sia saggi con moderazione”). E la buona sapienza universale, ripassando per esempio Confucio (“Chi si modera di rado si perde”). E la buona predicazione cattolica, spolverando le pagine di Gianfranco Ravasi (“La libertà non significa assenza di limiti e di dominio di sé e delle proprie pulsioni”).
Chiamata a corrispondere alla sua vocazione antica, la destra reagisce contraddicendo un dna che affonda le radici nell’lluminismo: con poca lucidità laica, con molta retorica integralista. E dà modo agli avversari -pronti a nascondere sotto il tappeto dell’opportunismo le loro colpe- di criticarne lo spirito di speculazione bottegaia, mirato solo alla caccia del favore sulla scheda che troveremo al seggio, il prossimo 4 marzo. Facile obiettare a questa destra che “…sa solo vedere il male dell’avversario, attribuendogli anche quello che non c’è e senza rendersi conto che ciò che scorgiamo in lui spesso dipende dal modo affrettato e meschino di guardare all’uomo”. Non lo dice oggi Renzi, lo disse nel secolo scorso Gandhi.
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