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Il racconto

DONNA SUL TRENO

GIOVANNA DE LUCA - 02/02/2018

immagineUna donna viaggia da sola su un treno, come si vede in un dipinto di Eduard Hopper. Dove va, o da dove viene? Quanti volti ha la realtà, oltre quella apparente?

IPOTESI 1

Aveva chiuso la porta dietro di sé. E se ne era andata.

In casa dormivano ancora tutti, erano le sei di una domenica mattina.

Durante la notte, nella camera che ormai occupava da sola, aveva raccolto quattro cose: il resto, che le sarebbe servito, lo avrebbe comprato là dove andava. Aveva sceso le scale in fretta, nel silenzio tombale del condominio. Poi aveva percorso la strada fino all’angolo, senza voltarsi. Non si lascia una vita come era stata la sua se non in fretta, con un taglio netto, prima che ti travolgano i ricordi.

Alla stazione poca gente. Il treno prenotato da una settimana. Il vagone vuoto.

Il posto era vicino al finestrino, come le piaceva. Seduta comodamente, per un poco aveva guardato il paesaggio che scorreva mentre il profilo degli alberi, dei monti, emergeva dall’oscurità contro il cielo rosato.

Ora si stava concentrando sulla mappa stradale della città dove doveva recarsi.

Aveva scelto, per la nuova vita, una città lontana, piccola, a misura umana, ricca d’arte e giardini.

Aveva per i primi giorni prenotato un albergo. Una volta arrivata, avrebbe prima di tutto dormito: dormito e dormito, voleva dormire tanto per quanto era stata sveglia nelle notti della prima vita…

Nelle inutili attese. Nelle angosce post-litigio. Nelle ansie per il rientro dei figli. “Basta, basta, basta” ritmava il treno sui binari, chiosava il chiaro-scuro delle gallerie, insisteva il pallido sole mattutino che entrava e usciva dalle nuvole…mentre il colpo della serratura del portone che si era chiusa alle spalle risuonava in lei come un batacchio di campana…

IPOTESI 2

Con molta attenzione cercava sul pieghevole la zona dove era situata la nuova abitazione nella città in cui era stato trasferito suo marito, a seguito di un’eccellente promozione.

Non ci andava volentieri da sola, ma lui aveva insistito perché si recasse a vedere l’appartamento che aveva deciso di comprare. Era un suo atteggiamento tipico: scegliere come gli piaceva, e cercare poi il consenso, l’obbligatorio consenso. Del resto sapeva scegliere, non lo si poteva negare. Capì che la casa si trovava in una zona elegante, centrale. Questo la disturbava: suo marito era un arrivista, un ambizioso carrierista. Mentre lo sguardo vagava sulla mappa, il pensiero di una casa ancor più lussuosa di quella in cui abitavano, di una nuova vita sociale ancora più impegnativa, di un’attenzione ancor maggiore al proprio look (“Devi imparare a vestirti”, le aveva detto lui nei primi tempi) la disturbava.

Nata e cresciuta in campagna, il padre semplice impiegato del comune, era andata all’università per far contenti i genitori. Senza infamia e senza gloria si era laureata. Un giorno, mentre seduta sul bordo di una fontana in una piazza della città leccava un gelato, aveva notato che un bel giovane, appoggiato ad una lunga automobile rossa, la guardava insistentemente. Poi si era avvicinato per chiedere un’informazione, e così…

Alzò gli occhi dal pieghevole, contemplò il paesaggio che scorreva: quanto rimpianto aveva per la sua campagna, i suoi boschi, i suoi prati! Questa promozione del marito, quest’altra vita in una nuova città la allontanava ancor più da essi.

Avrebbe distribuito nuovi sorrisi, finto inesistenti interessi, organizzato faticosissime cene…

Le cadde il pieghevole dal grembo, si scosse raccogliendolo, si concentrò sulla mappa. Doveva guardare bene, muoversi sicura, essere all’altezza…

IPOTESI 3

 Aveva preso il dépliant nel bar tabaccheria di fronte alla stazione, dove era entrata a bere un caffè. Giusto per distrarsi durante il viaggio e tenere lontani i pensieri che le occupavano la mente.

 Le aveva telefonato due giorni prima, dopo anni, il suo unico cugino. La conversazione era stata imbarazzante all’inizio, cosa si può dire a chi non ha da tanto tempo condiviso più niente con te? Le era sembrato che egli volesse dire qualcosa e non si risolvesse a farlo.

“Allora come stai? Non vieni mai qui, eh? Ormai sei abituata alla grande città, noi, poveri provinciali…”.

“Ma no, cosa dici? Vedi bene come passa il tempo! Sembra ieri che ci siamo visti…dov’era? Ah, già, al funerale della zia Flora, vero?”

“Sicuro. E sai, ecco, proprio della zia Flora devo parlarti”.

“ O bella. E perché?”

“Beh, ehm, è successa una cosa…Hanno trovato delle carte, pensa te, delle carte, e…”

“E cosa?”

“Pare che la zia Flora avesse un altro figlio, clandestino, avuto prima del matrimonio. “

La zia Flora, morta novantottenne, non aveva avuto figli dal matrimonio con lo zio Berto. Il cugino al telefono e lei erano gli unici eredi di un patrimonio cospicuo.

Era seguito un silenzio carico di sottintesi: quel figlio “illegittimo”, se veramente esisteva, era il vero unico erede, lo erano cioè ormai i suoi possibili figli.

Il cugino al telefono aveva poi insistito perché si vedessero, bisognava parlare, pensare al da farsi, insomma non era cosa da poco.

Alzò gli occhi dal dépliant e guardò fuori dal finestrino. Si avvicinava la sua terra, il paesaggio noto tanto amato, di conifere e monti: la conca del lago sembrava una culla in cui l’acqua riposasse, ora che si avvicinava il tramonto. E le dispiacque di tornarci così, per una brutale questione di soldi. Guardava il veloce scorrere degli alberi, le case, i giardini, e tutto le appariva così lontano, come un mondo di sogni tanto diversi dalla realtà…

IPOTESI 4

E adesso bisognava dirlo ai ragazzi.

Alzò gli occhi da alcuni referti e lasciò che il suo sguardo seguisse l’andamento del treno come un pennello imbevuto nel colore percorre in una lunga striscia uniforme il foglio bianco.

Qualche mese, le aveva detto il dottore. Le era sembrato che parlasse a un’altra, non a lei. Tra quelle parole e lei stessa c’era un immenso, anonimo spazio. Con suprema indifferenza aveva poi alzato gli occhi e aveva chiesto:

”Quanti?”

“Le ripeto: qualche mese. È una tempra forte, per ora reagisce bene alle terapie, ma non la voglio illudere, il peggioramento può arrivare improvviso”.

Seduta in un angolo, schiacciata contro il finestrino, si rivedeva uscire rigida dal grande ospedale, prendere la metropolitana, aspettare il treno, salirvi…Alle parole del dottore non aveva provato niente, ancora adesso non intendeva provare niente. Pensava solo che bisognava dirlo ai ragazzi, prepararli.

Margherita aveva quindici anni e adorava suo padre. Lei ne era perfino un po’ gelosa: a quell’età le femmine hanno per lo più nella madre la confidente, la consigliera, almeno per lei era stato così. Invece Margherita sembrava non aver bisogno di appoggi materni, piuttosto di un confronto solidale e stimolante con un uomo, con il padre appunto. Con lui faceva lunghe corse in bicicletta, andava a sciare, o affrontava escursioni lunghe e faticose. Come avrebbe reagito? Per un momento sentì sua figlia estranea.

Luca aveva dodici anni. Era il suo cucciolo, ancora le stava intorno come un piccolo d’animale, tanto che un po’ tutti lo prendevano in giro, soprattutto a scuola, e lo chiamavano”mammone”. Rapidamente sarebbe cresciuto, avrebbe avuto bisogno di una guida maschile.

E lei? Che ne sarebbe stato di lei? Non tutto era stato come sognato nei vent’anni del loro matri

monio, ma era pur sempre il padre dei suoi figli che stava per perdere. Inoltre avevano in quel momento problemi economici, poiché solo lui lavorava. Quando era nato Luca, delicato fin da piccolo, avevano deciso che era meglio una mamma che una baby sitter, su quello erano stati d’accordo.

Il treno prevedeva una fermata in un piccolo paese. Salirono alcuni ragazzi, una coppia giovanissima si appartò su due sedili che lei vedeva di sbieco alla sua sinistra. Parlavano piano, sussurravano, non temevano di mostrarsi innamorati.

E le tornarono situazioni lontane, sepolte dalla logorante quotidianità. Lei pure era stata come quella ragazza, e suo marito come quel ragazzo,e pareva che tutto sarebbe stato così per sempre, che la sorte sarebbe stata per loro sempre benevola, che nessun male insormontabile li avrebbe mai sfiorati, perché le cose brutte potevano capitare solo agli altri…

E adesso sarebbe stata sola, sola, ad affrontare tutto: vederlo soffrire, pensare ai ragazzi, provvedere al denaro, e a chissà quante altre cose.

Non si accorse di essere arrivata, scese in fretta. E vede Luca correre ridente, Margherita camminare pacata. E Luca corre e grida: “Mamma, mamma, ho preso sette in matematica” e l’abbraccia…

IPOTESI 5, 6, 7…

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