Conti da infarto? Prezzi gonfiati? Scontrini da non credere ai propri occhi? In Italia non è una novità, anzi è un vizietto ricorrente con buona pace delle associazioni di categoria che si stracciano le vesti. Approfittarsi del cliente sembra essere una declinazione del vecchio italico adagio “io sono furbo e se posso ti frego”. Ma è poi davvero furbizia? Cercare d’imbrogliare il prossimo e nella fattispecie il turista è sempre un danno per l’immagine del Paese e per chi ci lavora. Un autogol. Il turista nelle barzellette gira con l’aria trasognata e la testa tra le nuvole in mezzo ai ruderi dell’antica Roma o sul ponte dei sospiri a Venezia. Per qualcuno è un invito a delinquere. Un pollo da spennare.
Il conto da 1143 euro senza scontrino fiscale presentato a sette studenti giapponesi per quattro bistecche e un fritto misto di pesce all’Osteria da Luca a Venezia è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi. E non si può cavarsela addebitandolo alla scarsa coscienza del gestore egiziano, che paga un subaffitto da capogiro ad un cinese, che versa un ricco affitto al “sior paron” veneziano. Accade sulla laguna come a Roma, a Pisa, a Milano e forse ovunque. É il segnale di una mentalità diffusa, spalmata nel tempo e dura da estirpare. Fin da quando papa Bonifacio VIII dovette vietare l’uso delle caraffe non bollate e verificate per evitare truffe ai pellegrini nel Giubileo del 1300.
In anni più recenti la polizia intervenne il 19 giugno 2009 per un conto da 695 euro (due antipasti, due primi, due secondi e due coppe di gelato) in un ristorante dietro piazza Navona a Roma. Vittime predilette ancora due giapponesi. Il locale fu poi chiuso per gravi carenze igienico-sanitarie. Stesso anno, a luglio, clienti sotto choc a Milano per uno scontrino da 954 euro in un ristorante notoriamente raffinato e costoso, ma non abbastanza perché i due clienti ne fossero informati. Ancora a Roma, vicino a piazza di Spagna, quattro inglesi sborsano 64 euro per quattro coni-gelato leccati in piedi. Lo scontrino viene pubblicato sull’Independent con il titolo “Rome’s ice-cream mafia”.
Chi la fa l’aspetti. A gennaio 2012 il titolare di un bar di Pisa incassa 25,80 euro per tre cappuccini e tre brioches, ma non “mette nel conto” la reazione dei clienti. Appena usciti costoro vanno dai vigili urbani che, poco dopo, infliggono all’esercente una supermulta da mille euro. Il motivo? All’interno del locale non c’è la tabella dei prezzi come prevede la legge. Febbraio 2013. L’aggiunta di scampi freschi alla frittura consumata in una pizzeria vicino a Campo S. Formosa a Venezia costa 6oo euro a due danesi che denunciano l’episodio all’ambasciata italiana di Copenhagen, scatenando un putiferio diplomatico.
Pochi mesi dopo in un bar in zona Colosseo, tre cappuccini e altrettanti tiramisù vanno di traverso a un’esterrefatta famigliola dell’est che paga 71,30 euro. Il cameriere spiega che ogni fetta di torta costa 15 euro, il cappuccino 5 euro e la tassa per il servizio 11,30. Non convinti, gli stranieri si rivolgono al Codacons. Stesso copione il 17 agosto. Una comitiva di romani paga 100,80 euro quattro caffè e tre amari in piazza San Marco. “É tutto regolare – si difende il gestore – il listino-prezzi specifica che 42 euro sono di supplemento musicale. Sedersi davanti al Canal Grande e godersi un drink con la musica costa”. Finisce tutto su Facebook.
Che fare? Come stroncare quest’andazzo? Il ristorante fiorentino “L’è maiala!” (l’espressione in toscano significa “è dura!”) va controcorrente: “Scusi, mi porta il conto? Subito, eccomi. Dunque, avete preso due primi, due secondi, acqua, vino e caffè… allora fanno… beh, datemi un salamino della Valdarno, un lardo di Colonnata e due nanetti di gesso da mettere in giardino e siamo pari”. “L’è maiala!” è il primo ristorante italiano del baratto. Aprì nel 2012 con una filosofia adeguata al periodo di grave recessione economica. Il conto si può pagare con primizie alimentari certificate e oggetti dell’artigianato toscano.
Non si dice di arrivare a tanto ed è sbagliato generalizzare. Ingiusto infangare la reputazione della stragrande maggioranza dei baristi e dei ristoratori italiani onesti e consapevoli che praticare prezzi equi è un investimento che paga, che fidelizza i clienti e li induce a ritornare. L’Italia è famosa nel mondo per la bellezza dei luoghi, per la qualità del cibo e la cura del servizio. Appunto. Non è il caso di rovinare tutto con comportamenti scriteriati. E quando certi episodi accadono vanno puniti con esemplare severità per evitare che la tentazione di spennare il pollo diventi un boomerang per la categoria dei professionisti dell’ospitalità e dell’intero Belpaese.
Dopo il conto da 1143 euro, il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha tuonato contro i disonesti e l’associazione commercianti ha deciso di rimborsare i turisti tosati come pecore. “Per scusarci dell’accaduto – ha annunciato il presidente Roberto Magliocco – gli studenti avranno anche due notti pagate in hotel a Venezia e un giro in gondola per farli tornare a casa con un buon ricordo della città”. Doveroso. La tv americana Cnn ha intanto stilato una lista in cui Venezia figura tra le dodici mete da evitare per il 2018. Non per i prezzi beninteso, o non solo, ma per il sovraffollamento turistico che in certi giorni sfiora le centomila persone, per il problema delle navi che entrano in laguna e la crescente insofferenza dei cittadini.
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