Che cosa avrebbe dovuto fare Renzi, reduce da anni di livide fregature della sinistra Pd, in parte poi fuoruscita dai ranghi tramite scissione? Credere ancora in chi gli aveva zavorrato la continuità dell’azione governativa e pregiudicato il successo di riforma costituzionale/legge elettorale o non fidarsene più? Ha preferito la seconda opzione, anche se causa di sdegni un filo -un bel filo- ipocriti. L’operazione è stata bollata d’iperbullismo assolutistico dagli esclusi, quasi che fosse una novità. E non invece la consuetudine: è sempre accaduto che al leader d’un partito tocchi la parola decisiva nel licenziare le liste dei candidati al Parlamento o in altre istituzioni. Dove sta la vergogna?
Non è calata, in realtà, alcuna ghigliottina se non quella abitualmente in uso nel mondo politico, il quale obbedisce alle sue spregiudicate regole. Riconoscerne l’esistenza solo quando fa comodo è un’offesa alla storia, al realismo, alla verità. Perciò, nessuna Matteanza, tanto per giocare col nome del Grande Imputato. Semmai, da lui, una chiarificazione opportuna pur se ruvida circa un fenomeno da tempo in atto. Ovvero: il posto del Pd l’ha preso un partito diverso, meno di sinistra e più di centro, postdemocristiano e non postcomunista, dal marchio personalistico, incline al movimentismo. Stanco d’infinite trattative, di agguati protervi, delle cento briglie sul collo, Renzi s’è messo in proprio puntando sul dispotismo temperato (democrazia decisionista).
La svolta gli permetterà d’avvalersi d’una schiera di fedelissimi pronti a seguire qualunque manovra del capo dopo il verdetto del 4 marzo. Non c’è da scandalizzarsene. Se per anni si è lamentato che il male peggiore/mortifero del Pd consiste nel dividersi e poi arriva uno che dice basta, adesso provo a tenere insieme chi ci sta e poi vediamo come va a finire, sembra una contraddizione marchiarlo a fuoco come dominus totalitario.
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Il partito personale di massa non rappresenta una novità. La definizione -un veritiero paradosso- venne coniata da Norberto Bobbio all’epoca della discesa in campo di Berlusconi: il celebre filosofo/politologo qualificava in tal modo Forza Italia. Oggi non c’è partito che non sia personale e di massa. Lo è il post Pd, ora e in effetti PdR (Partito di Renzi) o PdN (Partito della Nazione). Lo è l’ex Lega Nord, ora Lega per Salvini premier. Lo è il Movimento 5 Stelle, ora che Di Maio -emancipatosi dal grillismo delle origini- lo dirige in solitario. Continua ad esserlo Forza Italia (ubi maior) ora che il Cavaliere l’ha messa in salvo sul ciglio del sepolcro dove pareva pronta ad esser tumulata.
La diseguaglianza, fra il terzo millennio e il secondo, è data dal differente sistema elettorale: nel 1994 di segno a prevalenza maggioritario, nel 2018 d’ispirazione soprattutto proporzionale. Ciò vuol dire che le alleanze prevoto (centrodestra e centrosinistra) sono artificiosi marchingegni acchiappaconsenso, e dunque irreali. Le scelte vere si faranno a urne chiuse: ciascuno conterà i suoi voti e deciderà come utilizzarli, alleandosi (a quel punto sì e davvero) con qualcun altro per conseguire uno scopo comune.
Funzionava così anche all’epoca della Prima Repubblica, nella quale gl’italiani hanno voluto nostalgicamente/sciaguratamente retrocedere dicendo un secco no al referendum del dicembre 2016. Esiste tuttavia e purtroppo un gap tra questo e quel mondo: la qualità dei partiti e dei leader. Lasciando perdere De Gasperi, Togliatti e Nenni, vogliamo mettere Moro, Andreotti, Fanfani, Natta; Malagodi, Berlinguer, Spadolini, Craxi (sì, anche e perché no Craxi) con gli omologhi segretari dell’attualità? Non possiamo proprio metterli, anche volendolo. Perciò rassegniamoci: la prevedibile balcanizzazione parlamentare cui darà luogo il verdetto degl’italiani imponeva ai leader di allestire squadre di fedelissimi, ma il gioco sarà quello che sarà. Lo spirito di bandiera, per quanto encomiabile, non ha mai reso campione un brocco.
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