Uso la parola “civismo” per connotare l’insieme dei movimenti e delle liste civiche che si muovono sul territorio prevalentemente, ma non esclusivamente, per le elezioni amministrative locali. Non è una realtà recente. Solo che in un passato ormai remoto i partiti “aperti” attiravano queste energie e i partiti più ideologici li presentavano come fiori all’occhiello pur senza offrire un reale spazio politico.
Con la crisi dei partiti i gruppi civici cercano di strutturarsi e misurarsi con l’elettorato in modo autonomo. Un fenomeno positivo con dei limiti che non debbono sfuggire. Ne sottolineo due. Il PRIMO è dato dal fatto che la loro nascita è spesso legata alla sfera emotiva più che ad un disegno di lungo respiro. Sentono che occorre mettere in campo più onestà, coraggio, abnegazione, e che hanno più armi per combattere la battaglia dell’efficienza. La realtà molte volte disillude.
Figlia di questa emozione è il SECONDO limite di questi movimenti: spesso non durano a lungo e una volta passate le elezioni tendono (salvo numerose eccezioni) a smarrirsi o perché non hanno avuto una rappresentanza istituzionale oppure perché scoprono il distacco degli eletti dalla base che li ha voluti e votati. In verità perché non avevano maturato, tutti insieme, una sufficiente cultura di “governo”.
Malgrado questi limiti il loro apporto alle comunità locali è rilevante per le idee fresche e le metodologie nuove che portano e talvolta (come a Varese l’anno scorso) risultano decisivi per vincere. Dove prevale la cifra politica delle Istituzioni (Regioni e Parlamento) l’azione di questi gruppi perde incisività ed emerge il ruolo egemonico dei movimenti politici organizzati su scala nazionale.
Non c’è dubbio che non possa esistere nessuna democrazia senza i partiti. È necessario però che abbandonino l’improvvisazione e riscoprano il gusto della formazione, dello studio, dell’elaborazione culturale. È ciò che è mancato e sta mancando (in grado diverso a seconda dei partiti) nella politica dell’ultimo lungo periodo. Oggi è il tempo di internet, dei social network, dei giovani che allungano il ciclo scolastico e universitario. Non ci sono più le fabbriche che erano luoghi di socializzazione e di un sindacalismo portatore di un vasto orizzonte sociale. Quel compito di sintesi culturale, proprio dei partiti, è tanto più arduo ma indispensabile.
In questa situazione e nel declino inesorabile delle ideologie del secolo scorso si è aperto un vuoto che va colmato con un pensiero lungo, profondo e strutturato che connetta le idealità all’azione politica concreta che va poi soggetta alle verifiche popolari. Insomma i partiti dovrebbero svolgere anche una funzione pedagogica. Peccato che questa sia un’opinione largamente minoritaria.
Non è vero che dagli insegnamenti della Chiesa o dagli ideali socialisti discendano, automaticamente o quasi, le strade e le soluzioni politiche da seguire. Questa è sciatteria intellettuale o integralismo. Quale visione del mondo, quale idea di Europa, quale forma dare alla giustizia sociale, quale accoglienza per gli immigrati, quale sicurezza sociale, quali relazioni industriali, quali diritti civili, quale sistema fiscale, uguale per tutti o progressivo? È questo lo spazio che i partiti hanno per andare al di là delle “emozioni”, per tradurre i principi e diventare elementi di coesione della società.
Sotto questo profilo il confronto ravvicinato, direi la contaminazione, con il “civismo” può essere un aiuto contro le incrostazioni clientelari e l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti. In questo modo il mantra dei partiti “siamo una comunità” non nasconderebbe un artificio dialettico e propagandistico ma diventerebbe una solida realtà.
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