“…e tutti l’ultimo sospiro/ mandano i petti alla fuggente luce”. Su questi versi, a mio avviso tra i più belli della nostra letteratura, mi soffermavo per far capire ai miei studenti che i Sepolcri del Foscolo non sono un pianto di morte, ma un canto alla vita, e alla poesia che vince “di mille secoli il silenzio”. E l’immagine che ancora adesso mi si presenta per prima alla mente – e che condividevo con loro perché mi sembrava la più efficace per dimostrare quanto ciò sia vero – è quella di una poesia particolare. Una poesia non di parole, ma di pietra, la poesia di Ilaria del Carretto, a cui Jacopo della Quercia seppe erigere il monumento meno funebre che si possa immaginare.
La prima volta che la vidi si trovava nel transetto sinistro della Cattedrale di Lucca. La luce che filtrava dalle vetrate non era fuggente, ma pietosamente le carezzava il volto, il panneggio dell’abito, le mani morbidamente poggiate sul lieve turgore del ventre, segno della recente maternità. Ilaria non era morta, semplicemente si era addormentata per quasi sei secoli e da un momento all’altro avrebbe potuto svegliarsi. Aveva ventisei anni – era poco più giovane di quanto fossi io allora – e aveva appena dato alla luce una bambina che si sarebbe chiamata come lei. Questo era tutto ciò che sapevo. Se si fosse risvegliata avrebbe potuto parlarmi di sé, avremmo potuto diventare amiche. Anche il cagnolino ai suoi piedi sembrava aspettare solo quel momento.
La consapevolezza della morte era annullata dalla convinzione che la Bellezza può vincere il silenzio dei secoli, può sconfiggere l’oblio. Quanti si ricorderebbero oggi di lei se Jacopo della Quercia non avesse reso poesia quel marmo?
Ma, soprattutto, quella Bellezza contribuisce a dare un senso alla vita delle migliaia di persone che, come me, si sono fermate ad intrecciare con lei un dialogo muto, perché, come dice Leopardi, “la vera poesia aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita”.
Mi sono chiesta spesso perché i Sepolcri mi facessero pensare a quell’opera e non invece a Omero o a Dante, a Leonardo o a Michelangelo, o comunque ad una delle tante creazioni grandiose ed epiche dell’arte umana. Credo sia perché riesce ad evocare la vita proprio ritraendo la morte, e in modo inequivocabile ci consegna la speranza – o l’illusione – che morire non significhi precipitare nel nulla.
Anni dopo quel primo incontro con Ilaria, tornai a Lucca e volli andare a rivederla. Non la trovai nel transetto della Cattedrale, l’avevano spostata nella sagrestia e per accedervi bisognava pagare un biglietto. Mi sembrò un oltraggio, anche se potevo capire la fondatezza delle motivazioni. Pagai ed entrai: non avrei potuto andarmene da Lucca senza averla rivista. La luce artificiale la illuminava senza alcuna pietas. Un recinto ligneo la proteggeva dall’assalto dei visitatori, ma al tempo stesso la esponeva agli sguardi come un pezzo da museo. Mi avevano tolto la mia amica Ilaria.
Eppure, se restavo a guardarla in silenzio, isolandomi dall’ambiente circostante, la ritrovavo. La luce delle vetrate non la carezzava più, ma era ella stessa ad emanare luce: Jacopo era riuscito a catturare in lei la fuggente luce della vita. E ambedue si erano fermati al limitar di Dite: Ilaria del Carretto, giovane madre per sempre, e Jacopo della Quercia, poeta della pietra.
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