Non è la prima volta e purtroppo non sarà neppure l’ultima che una campagna elettorale viene segnata da aspre contrapposizioni e mirabolanti promesse. Poi, “passata la festa”, contati i voti e il peso di ciascuno, ci si ritrova alle prese con i grandi problemi irrisolti, politici e programmatici.
Questa volta però rispetto al passato c’è una differenza sostanziale fatta soprattutto di incertezze e sfiducia. Mai come ora si è avvertito un distacco così profondo e diffuso dalla politica e dai partiti e anche se la partecipazione al voto dovesse smentire le ipotesi più pessimiste la sostanza non cambierebbe, perché tutto fa supporre che l’eventuale superamento dell’apatia sarebbe motivato più dalla voglia di votare “contro” qualcuno, che da un progetto condiviso.
Per stimolare un voto partecipato e costruttivo bisognerebbe rimettere al centro la situazione reale del Paese e misurarsi adeguatamente con la “percezione” che ogni cittadino ha della propria condizione. Ci si dovrebbe interrogare su cosa è realmente accaduto in queste anni nei territori, nelle famiglie, nei luoghi di lavoro e, particolarmente, nelle teste e nei cuori delle persone in carne ed ossa. Non serve ora gridare “al lupo, al lupo”, né alzare i toni nella contesa, perché i guasti prodotti dalla lunga crisi che ci accompagna ormai da un decennio, non sono superabili con i tatticismi e le manovre elettoralistiche.
Per comprendere la gravità della situazione basterebbe leggersi i dati sfornati periodicamente dagli istituti di ricerca tutti concordi nell’affermazione che nel decennio della grande crisi i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Il lavoro è diventato sempre più precario, meno retribuito, pieno di abusi e di rischi. E se oltre il 60% degli italiani “percepisce” una crescita delle disuguaglianze e un peggioramento della propria condizione di vita, non di sola percezione si tratta ma di una realtà drammaticamente riassunta nelle cifre di un rapporto pubblicato qualche settimana fa. Il 20% degli italiani possiede il 66% della ricchezza nazionale, un altro 20% ne controlla il 19,2%, mentre la stragrande maggioranza (il 60% degli italiani) deve accontentarsi del restante misero 14,8%.
Nell’ultimo decennio, a conferma che la stessa crisi non è uguale per tutti, il divario è notevolmente cresciuto: il 10% più povero degli italiani si è visto decurtare il reddito disponibile del 28%, mentre il 20% dei percettori di reddito più alto lo ha incremento del 20%. Se a questi numeri che parlano già da soli aggiungiamo il dato che l’Italia figura al 23° posto (sui 28 paesi dell’Unione Europea) per i provvedimenti finalizzati alla riduzione delle disuguaglianze allora, forse, diventa più facile spiegarsi dove nasce il distacco dalla politica e dalle istituzioni.
Per fronteggiare la diffidenza e la sfiducia, avvertibili in tutti gli strati sociali e, in modo più acuto, tra le fasce più deboli, occorrerebbe dunque ben altro che qualche slogan intrigante o qualche volto simpatico.
Ci sarebbe bisogno di una politica capace di rispondere alla “solitudine” di quanti non si sentono più rappresentati, con un progetto politico e programmatico credibile. In grado cioè di rispondere concretamente alle domande ed ai bisogni delle vere vittime della crisi. Un’impresa certamente non facile perché impone di rimettere in discussione la cosiddetta politica di austerità i cui effetti sono ormai sotto gli occhi di tutti. Ma questo è un passaggio obbligato almeno per chi non ha smarrito del tutto la funzione alta della politica, la sua capacità di rappresentanza reale dei più deboli e degli interessi generali del Paese. Per altri è sufficiente raccogliere e alimentare i timori e le paure della gente, confezionare ricette “semplici” per problemi complessi, indicare nemici inesistenti o spacciare per nuovo quanto di più vecchio abbiamo conosciuto.
Il 4 marzo gli italiani esprimeranno nel voto il loro stato d’animo e le loro aspettative. Però comunque vada il giorno dopo ci sarà da fare i conti con gli effetti di una legge elettorale perversa che legittima le alleanze taroccate (non è richiesto un programma comune, né un leader condiviso) e la lotta di tutti contro tutti. Grazie al meccanismo escogitato nessuno avrà la maggioranza in Parlamento (a meno che non conquisti il 40% sul proporzionale e almeno il 70% dei collegi uninominali).
Poi si vedrà.
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