In Italia, mentre ci si accapiglia sulle coalizioni e sulle candidature, piuttosto che sui programmi, aumenta il tifo da stadio. Si sviluppano le chiacchiere da bar sport dove il più volgare saputello impartisce lezioni di strategia politica a tutti e dove – purtroppo! – crescono rancore e odio. In molte formazioni politiche domina la demagogia fatta di promesse che non possono essere mantenute, di proteste insensate, di polemiche sterili: chi si abbandona a questa vendita di fumo non si rende conto che contribuisce a minare ancora di più la nostra già fragile democrazia. A Norberto Bobbio questi arruffapopoli facevano l’effetto di minatori incoscienti che si mettono a fumare sigarette in una miniera piena di grisou!
C’è l’evasore fiscale che promette di diminuire le tasse, ma non dice come andrà a colmare il mancato introito; c’è chi un giorno promette di abolire il Job’s act, salvo rettificarsi il giorno dopo; c’è chi addirittura vorrebbe abolire i vaccini procurandosi l’ostilità del mondo scientifico; c’è chi vorrebbe abolire il canone Rai, chi il redditometro, c’è chi – dimenticandosi che fino a ieri aveva criticato l’indiscriminata abolizione dell’Imu e l’erogazione indifferenziata dei “bonus” – oggi vorrebbe abolire le tasse universitarie per tutti; c’è chi un tempo prometteva di voler andare al governo da solo ed ora si ricrede rivolgendosi a coloro che condividono il suo programma… La chiamano “politique d’abord”, ma qui di politica non c’è neppure l’ombra: qui c’è soltanto la degenerazione della politica!
Sparita la linea di demarcazione tra destra e sinistra, improvvisamente è sparita anche la delimitazione tra europeisti ed antieuropeisti. In vista delle elezioni, i partiti più euroscettici hanno smorzato i toni e non parlano più di “uscita dall’euro”, slogan che viene sostituito tutt’al più dalla proposta di un referendum abrogativo, ben sapendo costoro che la nostra costituzione vieta i referendum sui trattati internazionali.
E mentre in Italia si discute, un po’ dappertutto in Europa aumenta l’euroscetticismo che va sotto il nome di “sovranismo”: se ho ben calcolato, oggi nell’UE ci sono 34 richieste di referendum antieuropei in diciotto paesi. Gran parte di queste richieste resterà senza seguito, ma il segnale che da esse perviene resta inquietante.
I “sovranisti” britannici si stanno accorgendo che l’uscita del Regno Unito dall’UE sta creando grossi problemi al regno di Sua Maestà: la bilancia del compromesso pende più dalla parte dell’Unione che da quello del Regno Unito. Se si sono trovate soluzioni sul trattamento dei cittadini britannici residenti nell’UE e di quelli comunitari in Gran Bretagna, sul regime che si dovrà applicare ai transiti tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, restano ancora da stabilire il calcolo del costo dell’uscita e altri grandi problemi che vanno da chi dovrà interpretare e applicare il diritto comunitario fino a quello dei diritti di proprietà intellettuale (incluse le denominazioni geografiche!…): tutti bocconi amari da far accettare ai “sovranisti”, senza contare che la Brexit potrebbe innestare all’interno del Regno Unito la secessione della Scozia e del Galles.
E a proposito di secessione sarà bene rammentare la fine che ha fatto la richiesta della Catalogna. Le “piccole patrie”, ri-generate grazie anche all’Europa, che ha offerto a loro il diritto di salvaguardia delle lingue (il bilinguismo), contributi per finanziare progetti di cultura locale e fondi regionali chiedono di staccarsi dallo stato nazionale. A noi sembra, al contrario, che queste identità locali possano essere meglio protette all’interno di uno stato sovranazionale, che assicuri loro la democrazia, che in uno stato nazionale. Ne è un esempio evidente l’intervento della Commissione UE nei riguardi della Polonia, in cui il potere giudiziario, a causa delle riforme del governo conservatore, è divenuto soggetto all’esecutivo: l’Europa è intervenuta minacciando la Polonia di poter essere sottoposta a sanzioni se non rispetterà i principi dello stato di diritto. Faranno bene anche Ungheria e Repubblica Ceca a rivedere la loro politica di chiusura verso i migranti perché i piccoli stati nazionali, stretti in un mondo globalizzato, saranno ridotti a “polvere senza sostanza” come diceva Luigi Einaudi o a sfuggire alle vecchie difficoltà: come faranno, ad esempio, a far pagare le tasse alle multinazionali e a redistribuire la ricchezza se non concedendo competenze ad un’autorità sovranazionale, sia essa un’unione o una federazione, che meglio può governare interessi non circoscritti?
Anche negli USA le ragioni dell’odio stanno trionfando e oggi Trump è una minaccia per l’integrazione europea. I “sovranisti” e gli orecchianti di politica europea ne approfittano per alimentare sentimenti euroscettici, ma non sono in grado di offrire alcuna situazione alternativa. Solo un’Europa più forte può gestire i problemi legati al cambiamento climatico, alla sicurezza, all’immigrazione. L’hanno capito Francia e Germania che hanno stretto un patto per regolare la globalizzazione e la finanziarizzazione delle economie, per coordinare le politiche economiche centrate su una comune politica fiscale e di bilancio, per regolare i flussi migratori e frenare i sentimenti identitari. Se andrà in porto la grande coalizione tra PSD – CDU e CSU (che lezione per l’Italia! Le delegazioni si sono incontrate per mesi, hanno dialogato, mediato e al termine è uscito un “quadro” che sarà sottoposto all’assemblea del PSD, dopo – e non prima – della possibile alleanza!), l’Europa sarà ancora trainata dalla Germania. Val la pena di ricordare che per la Germania la rinuncia al marco fu un “sacrificio”. In un certo senso, era il contraltare all’unificazione, ma la sua leadership non può diventare egemonia.
E l’Italia? Non può brandire l’egemonia tedesca come capro espiatorio di tutti i suoi mali: per essere credibili dobbiamo osservare la disciplina di bilancio e la flessibilità, che potrà esserci concessa, dovrà servire solo per creare posti di lavoro. Non possiamo più fare le cicale. Non lo potrà fare la coalizione di destra che si presenta alle elezioni con un lungo elenco di tasse da abolire, non lo potrà fare il centro-sinistra che insegue la destra nella mitologia fuorviante del “picchiare i pugni in Europa”, non lo potranno fare coloro che oscillano sull’Europa, ma a Strasburgo stanno con Farage nel gruppo più anti-europeo, non lo potrà fare la nuova sinistra che, in preda a biechi personalismi, ha perduto la visione europea di Spinelli. Chi, allora? Coloro che da qui fino al 4 marzo definiranno lo spartiacque tra “sovranisti” ed europeisti. Sperare di vincere le elezioni tenendo un piede in una scarpa e l’altro in un’altra è un progetto suicida: ci ha già provato Schultz, che aveva messo in sordina i problemi europei, ma ora ha corretto la rotta perché sa che, senza una forte integrazione europea, in Germania possono ritornare i fantasmi della prima metà del XX secolo.
Se l’Italia non seguirà l’esempio di Macron – che ha vinto il fascismo della Le Pen – e della Germania, la strada diverrà ancora più impervia a causa del suo debito pubblico, della crisi sociale, della corruzione, della poca memoria. Si sta assistendo in tutta Europa ad un passaggio dall’economia alla politica: lo speriamo anche per il nostro paese.
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