«Quando […], in un mio discorso, lanciai il primo grido d’allarme sulla decadenza della razza bianca, decadenza che non risparmiava come non risparmia sia pura in forma attenuata nemmeno la Nazione italiana, taluni poterono ritenere intempestivo o esagerato il mio richiamo. Sono passati otto anni, durante i quali il fatale declino è continuato, si è, anzi, aggravato ed ecco i gridi d’allarme sorgere in tutte le parti del mondo. […] In un mio discorso ho detto che anche davanti a questo fenomeno terribile, delicato e per certi lati misterioso, la politica peggiore è quella liberale del “lasciar correre e lasciar fare”. […] Per l’Italia come per gli altri Paesi abitati da popoli di razza bianca è una questione di vita o di morte.»
Queste parole non sono state pronunciate da un candidato alla presidenza della Regione Lombardia nel 2018, ma le ricavo da un articolo pubblicato in prima pagina sulla «Stampa» del 5 settembre 1934, dal titolo La razza bianca muore?. Il suo autore si chiamava Benito Mussolini.
Nel 1934 non erano stati ancora emanati i primi provvedimenti razzisti, destinati ai sudditi delle colonie. Non erano stati ancora emanati, complice un sovrano incapace, i primi provvedimenti antiebraici. Mussolini, quando nel 1938 diede il via alla campagna persecutoria nei confronti degli italiani ebrei, ci tenne a precisare che lui era stato razzista sin dal 1919.
Ci sono parole che in politica non andrebbero mai pronunciate. Soprattutto da parte di chi aspira ad assumere ruoli di governo. A qualunque livello. Ci sono parole su cui si è sedimentata una storia di sofferenze e di ingiustizie, che il tempo non può cancellare. Ci sono parole che, nell’approssimarsi di un evento pubblico, frutto di una legge dello Stato, come il Giorno della memoria, risultano offensive e lesive della dignità dell’intera comunità nazionale.
Da chi aspira ad assumere importanti ruoli di governo ci si aspetterebbe almeno il senso di responsabilità. La responsabilità, dicono i dizionari, consiste nella capacità di valutare la conseguenza delle proprie azioni. Chi non è in grado di valutare il peso e le conseguenze delle proprie parole, non dimostra di possedere il senso di responsabilità. Non dimostra di essere in grado di assumere ruoli di governo. A qualunque livello.
Non posso credere che si imbastisca una frettolosa e ridicola giustificazione appellandosi all’articolo 3 della Costituzione. Non c’è bisogno di essere un uomo di diritto per sapere come e perché la parola «razza» sia stata scelta dai nostri Costituenti. Nel corso della seduta pomeridiana dell’Assemblea costituente del 15 marzo 1947, il socialista Ferdinando Targetti, a proposito di quello che sarebbe diventato l’articolo 3, affermò:
«[…] Questa parola “razza”, suona tanto male. Mi pare sia stato l’onorevole Lucifero [Roberto Lucifero d’Aprigliano, liberale e monarchico] a proporre in seno alla prima Sottocommissione di sostituirla con la parola “stirpe”. “Razza” fa pensare più che agli uomini, agli animali. Ma esaminando la questione dal punto di vista linguistico, storico, scientifico è difficile sostituirlo e anche “stirpe”, non credo che potrebbe essere un termine proprio. […] Certo, che se non si cede a certi tristi ricordi ed al bisogno di condannare, ogni volta che se ne presenta l’occasione, inumane, odiose distinzioni che nel passato portarono a tante iniquità, basterebbe dire che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, salvo poi colpire la eventuale propaganda antirazziale, annoverandola tra le attività criminose, e dando così vita ad una forma di reato che dovrebbe trovar nel Codice penale una severa sanzione.»
In questa come in molte altre occasione, nell’intenzione dei Costituenti la scelta di una particolare parola avrebbe dovuto evocare il recente passato fascista. La Costituzione repubblicana, cioè, nel rappresentare la forte discontinuità con il passato, avrebbe dovuto richiamare costantemente alla memoria le scelte dolorose e scellerate operate durante il fascismo.
Guai se qualcuno pensasse di nascondersi dietro il dettato costituzionale, laddove afferma che «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di […] razza», per tentare di legittimare un’affermazione volgare, spregevole ed incauta. Dimostrerebbe di non conoscere la storia, di non conoscere la storia della nostra carta costituzionale e quei principi di civiltà che dovrebbero regolare la nostra convivenza.
Da parte di chi aspira ad assumere ruoli di governo, avremmo apprezzato, di fronte ad un evidente e grossolano scivolone linguistico, etico e culturale, delle pubbliche scuse. Un semplice: «Ho sbagliato, chiedo scusa». Così non è stato. Peccato.
Enzo R. Laforgia
Consigliere comunale della lista Progetto Concittadino
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