Trrrrr tac, trrrr tac, trrrr tac… Quasi come alla roulette, il disco bucherellato girava scoprendo e coprendo i numeri, grazie al dito indice infilato nel foro giusto, finché non ottenevi la cifra desiderata. Cortissima, di solito, perché non c’era prefisso – solo chiamate urbane! – e quattro-cinque numeri erano la media dei recapiti telefonici. Il nostro, varesino, 24141.
Lo squillo era di una potenza terrificante, perché la postazione dell’apparecchio, spesso incastonato nel muro ad altezza proibitiva per noi bambini, era indefettibilmente l’ingresso, e lo si doveva sentire in tutta la casa. Che imponenti, i telefoni di allora: seriosi oggetti di bachelite nera, pesanti e fragili allo stesso tempo, con il corpo centrale fornito di disco numerato, targhetta trasparente dove infilare il cartellino col tuo numero, se mai l’avessi scordato, e forcella in metallo per la cornetta, che un filo robusto consentiva di far spenzolare nel vuoto mentre correvi a chiamare l’interessato, fiorita di forellini a un’estremità – per parlare – e di fessure all’altra – per ascoltare -.
Se avevi bisogno di chiamare da fuori, semplice, c’erano la cabine pubbliche. Le primissime non le ricordo, quelle che usavo io avevano le portine a molla, un disco telefonico sul tetto a mo’ di stella in cima all’abete, e dentro un’ imponente cassone di metallo begiolino – il telefono -con tanto di istruzioni sul davanti, la fessura per il gettone alla sommità, oppure sul fianco opposto alla cornetta, e spesso, attaccati con una leggera catenella, gli elenchi telefonici (per noi del Nord, la “rùbrica”). I gettoni cadevano a intervalli regolari, a uno a uno, ingoiati dalla pancia dell’apparecchio telefono; ma dovevi averne sempre pronto uno di riserva, se il meccanismo impazziva e te li divorava vorace. Quindi, mai uscire senza una scorta di gettoni! Che erano anche moneta sonante, pari a cinquanta lire.
Il problema erano le interurbane. O andavi agli uffici della Stipel (poi Sip, oggi Telecom), di fronte al cinema Vittoria, e ti mettevi in coda aspettando una cabina libera. Oppure, da casa, funzionava così: chiamavi il centralino – Signorina vorrei parlare con questo numero di Bari- Chiama da?- Varese- Le ripeto il numero, è corretto? La richiamo quando è in linea-.
E a quel punto, riattaccavi la cornetta e ti mettevi ad aspettare. Intanto pensavi a cosa avresti detto. Ottimo spazio di riflessione se si trattava di lavoro, deleterio se il chiamato era il moroso. Perché l’attesa era random e quello che il cuore aveva in serbo da giorni – il tempo di convincere i genitori – tutto d’un tratto si confondeva, si annebbiava, appariva sciocco e ridicolo, spropositato o troppo banale. E aspetta e aspetta, macinando piastrelle in su e in giù per il corridoio, finché lo squillo agognato arrivava. – Bari in linea può parlare- . Parole stentate, sospettose di un ascolto altrui (le centraliniste si sono mai fatti i fatti propri?), interrotte sul più bello – Minuti scaduti, raddoppia?-.
Meglio, assolutamente meglio le lettere. Magari su carta velina per Posta Aerea, perché arrivassero prima a destinazione, anche se il francobollo da lire quaranta era un salasso. Una al giorno, minimo. Perché il cuore potesse, finalmente libero, parlare all’altrui cuore.
Ne ho ancora un bauletto pieno in solaio.
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