Il rientro in Italia, quasi di soppiatto e a settant’anni dalla morte, della salma di Vittorio Emanuele III di Savoia proveniente dall’Egitto, prima, e quella della di lui consorte regina Elena di Montenegro dalla Francia, poi, e la loro tumulazione – provvisoria s’è detto – nel santuario di Vicoforte di Mondovì è stata la notizia-tormentone dei giorni che hanno preceduto il Natale, in seguito prontamente superata dalla votazione in Catalogna e poi dalle solite manfrine del governo-non governo nostrano, dallo scioglimento delle Camere e dal via della campagna elettorale. Ma siamo sempre in campagna elettorale, in effetti. Da anni.
Per quanto riguarda i Savoia, strascico alimentato anche dagli ultimi eredi, il nipote abiatico Vittorio Emanuele IV e il bisnipote Emanuele Filiberto, s’è continuato invece a parlare a proposito di una loro eventuale e possibile collocazione al Pantheon di Roma, dove già “riposano” altri due Savoia: il primo re d’Italia Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I con la regina Margherita. È stata soprattutto quest’ultima ipotesi a suscitare rumore e talvolta anche sentore di scandalo.
Partendo dal presupposto – non peregrino – che la sepoltura nel Pantheon sia una celebrazione, e dunque un riscatto e quasi una riabilitazione postuma di Vittorio Emanuele III, il re del fascismo, e dunque un recupero del fascismo stesso, s’è sollevato subito il polverone: Vittorio Emanuele non è degno del Pantheon; e sotto sotto qualcuno forse avrebbe voluto che i resti di questo re mai fossero riportati in Italia.
I social – e anche qualche giornale – si sono riempiti di storici; astiosi e un po’ improvvisati quelli sui social, ma tant’è. Del lungo regno di Vittorio Emanuele (1900-1946) s’è giudicata quasi sempre solo la seconda parte, dal ’22 al ’45, rilevandone tre momenti esecrabili e disgraziati: la promozione del fascismo, quando nel ’22, dopo la marcia del 28 ottobre, il re non firmò lo stato d’assedio di Roma; la controfirma delle leggi razziali del 1938 e quindi la fuga di Pescara dopo l’8 settembre del ‘43. Quasi tutte le colpe di un ventennio gli sono state attribuite come volenterosa complicità dell’opera di Mussolini, il quale per altro da decenni, custodito e omaggiato da militi volontari, riposa con i suoi congiunti nel cimitero del proprio paese natale, a Predappio, in Romagna, senza che nessuno avesse mai avuto nulla da ridire.
Non si può in poche righe riassumere la storia di quasi cinquant’anni, quasi tutta la prima metà del XX secolo, il tempo in cui Vittorio Emanuele III rimase sul trono. Si potrebbe però dire che durante la prima guerra mondiale questo piccolo (piccolissimo anche di statura) re d’Italia ebbe il merito di prendere nelle mani le redini del Paese, nominando a sorpresa Diaz comandante militare in capo, che aveva conosciuto al fronte, al posto di Cadorna dopo la disfatta di Caporetto. E infine fu lui, e non altri, nel luglio del ’43 a ordinare l’arresto di Mussolini, dopo che il Gran Consiglio del fascismo l’aveva messo in minoranza.
È vero che lo “stile” di un re o c’è o non c’è. Ma così come si potrebbe affermare che i meriti di una vittoria sono mai ascrivibili a una sola persona, per quanto in posizione di grande autorità, ma a un intero popolo, ciò si potrebbe affermare anche dei demeriti. E il ragionamento vale per la controfirma delle vergognose leggi razziali, nelle quali alcuni storici hanno voluto vedere una “burocratica” – e inetta – conferma della politica del fascismo e della guerra che si stava per intraprendere a fianco di Hitler (ma nel 1931 solo l’1 per cento dei docenti universitari italiani non aveva voluto giurare fedeltà al regime), avallata per quanto se ne dica e almeno all’inizio da buona parte dell’opinione pubblica.
Si può dire altrettanto della cosiddetta fuga di Pescara. La percezione degli italiani fu proprio questa, della fuga, ed è molto probabile che tale scelta, al referendum del ’46, fu poi pagata con la caduta della dinastia. Ma altri storici vi hanno voluto vedere invece un’indicazione di continuità del regno d’Italia, nel Sud, nella parte liberata. E mentre l’astio e le circostanze ricordate hanno voluto soprattutto penalizzare il dramma del Savoia, nessuno – o pochi – ha ricordato che in quegli stessi giorni la sua figliola secondogenita, Mafalda, veniva catturata dai tedeschi: morì alcuni mesi più tardi nel campo di concentramento di Buchenwald.
Ed è singolare un altro aspetto. Mentre il re Vittorio Emanuele, il re vittorioso di Peschiera diveniva l’ignobile re di Pescara, il suo principale collaboratore di quei giorni, il maresciallo Pietro Badoglio, non incolpevole a Caporetto (ma poi anche audace e intelligente collaboratore di Diaz) e pure tra i protagonisti della “fuga” veniva onorato, dopo la morte (1956) con l’intitolazione del proprio paese natìo: da Grazzano Monferrato a Grazzano Badoglio, appunto.
Sulla tumulazione degli ultimi due re sabaudi (Vittorio Emanuele III e Umberto II, che riposa tuttora nell’abbazia di Hautecombe) – oggi e anche ieri – vi sono state diverse prese di posizione. Contrari, contrarissimi gli attuali politici di vertice, di opinione diversa qualche autorevole storico. Sergio Romano, per esempio, che qualche anno fa sul Corriere non se ne meravigliava, indicando – ammesso e non concesso il significato di celebrazione del Pantheon – come i re Savoia rappresentassero, nel bene e nel male, un Paese che non può cancellare il proprio passato.
Ma il punto è anche capire se il Pantheon rappresenti davvero il mausoleo dei Savoia. V’è il sospetto che nel 1878, quando morì Vittorio Emanuele II – autodenominatosi secondo, si badi bene, nonostante fosse il primo re dell’Italia unita – Francesco Crispi, che era ministro dell’interno, l’avesse voluto il quel luogo quasi per fare un dispetto al Papa. Ma il Pantheon non è una tomba di re, invece anche di illustri grandi italiani (altri e numerosi riposano in Santa Croce): pittori, scultori, architetti, musicisti (tra gli altri Perin del Vaga, Annibale Carracci, Giovanni da Udine, Baldassarre Peruzzi, Arcangelo Corelli e su tutti l’insigne Raffaello Sanzio).
L’ostinazione – è opinione personale – di voler tumulare i Savoia al Pantheon, a questo punto, ci sembra di nuovo pretestuosa, come lo fu probabilmente nel 1878. Meglio sarebbe non tumularvi gli ultimi due Savoia – Vittorio Emanuele III e Umberto II – ma esumare anche Umberto I e Vittorio Emanule II, e portarli tutti nella basilica di Superga, in quella Torino che fu la prima capitale dell’Italia unita.
Fomentare nuove divisioni tra italiani, alimentare polemiche storiche (per altro sempre soggette a revisioni) non è degno di personaggi che si fanno ancora chiamare reali. Crediamo siano stati questi i sentimenti che albergassero nell’animo di Umberto II, quando, perso il referendum del 2 giugno ’46, lasciò per sempre l’Italia diretto verso l’esilio di Cascais. Una lezione di vera nobiltà, riconosciuta anche dagli avversari politici e da italiani repubblicani: una monarchia, diceva Umberto, non si può reggere su una maggioranza numerica di consensi (non grandissima), a differenza di una repubblica.
Superga, dunque potrebbe divenire – per i monarchici non trinariciuti e anche per repubblicani che vogliono riflettere sulla storia e sul passato del proprio Paese – la nostra non eccelsa ma seria e dignitosa Kapuzinerkiche, come la chiesa che a Vienna accoglie le spoglie degli Asburgo.
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