La relazione atipica tra Wolfgang Goethe e la baronessa Ulrike von Levetzow consente di scandagliare l’animo di un uomo: uno degli spiriti più elevati, non uno qualsiasi. Per farlo dobbiamo accantonare i giudizi sommari e i moralismi d’accatto.
La vita e la produzione letteraria di Goethe, così intrecciate tra loro, hanno scandito il paradigma dell’epoca romantica: la formazione come continua e interminabile costruzione di sé nelle relazioni con gli altri e nell’unità di natura e cultura. Goethe ha cercato di incarnare il Soggetto vagheggiato dalla modernità: l’unità di teoria e vita, di pensiero e stile, di sentimento e produzione.
Pierre Hadot fa di Goethe l’interprete moderno degli esercizi spirituali delle scuole filosofiche greche ed ellenistiche. Più che di esercizi si tratta di un apprendimento: dalla vita, dalla natura, dalla cultura. La riflessività stimola l’individuo a cambiare il proprio punto di vista e insieme a cambiare se stesso. E prescrive il Memento vivere, che si instaura come habitus prima con la concentrazione sull’istante presente e poi con la presa di distanza dalle cose, dagli eventi e dalla propria particolarità, sino a guadagnare una prospettiva di insieme.
Come ogni grande scrittore, Goethe riversa nei personaggi molti suoi vissuti. È stato un po’ Werther, incentrato su un sé acerbo che non sa approfondire; un po’ Faust, distaccato e ossessionato dall’elevazione; e un po’ Edoardo, capriccioso, ipocondriaco e dominato dall’immediatezza. Ma da quei lati di sé ha preso congedo, o – meglio – li ha serbati, oggettivati nella scrittura, incorporati senza smarrirli. Il vero approdo è Wilhelm Meister: il suo vasto percorso autobiografico, oltre le inquietudini debordanti e i contenimenti quietisti; la profondità della riflessione su di sé e sul mondo; e il pieno riconoscimento, faticosamente conquistato, di una vocazione che chiude un lungo apprendistato e schiude la maturità.
Goethe prese in mano la sua vita a 16 anni, quando dalla natìa Francoforte si trasferì a Lipsia per studiare legge e medicina e coltivare la passione per il teatro, la letteratura e le arti figurative. Quando entrò all’università era in grado di parlare e comprendere varie lingue europee oltre al greco e al latino, sapeva disegnare e dipingere, intravedeva in sé una passione per il teatro nata dal suo entusiasmo di ragazzino per le marionette e i personaggi popolari.
Era un giovane bulimico di conoscenze, esperienze e amore. Come ogni giovane si sperimentò e intraprese strade subito abbandonate: il pietismo, le pratiche alchemiche, l’esoterismo. Concepì ogni studio, lettura e opera come una forma di introspezione entro un percorso di individuazione interrotto solo dalla morte. Da allora coltivò l’idea-limite di un’irraggiungibile perfezione, superiore mediazione tra immediatezza e riflessività.
Quando nel 1821, durante le consuete vacanze termali, incontra Ulrike a Marienbad, Goethe ha 72 anni. È un nonno premuroso. Conserva nel volto una bellezza di tratti che un cenno di pinguedine e la vecchiaia non hanno scalfito. Lo sorprendiamo ancora pronto ad innamorarsi con lo stupore di un adolescente, con la saggezza e i doni di un adulto e con le malinconie e le scarse energie di un vecchio. A Marienbad con la madre e la sorella, Ulrike ha appena 17 anni. Il bicchiere che la ragazza gli regala al momento della partenza finisce in una teca di casa come simbolo di una presenza preziosa, incompiuta e sostitutiva. Rivede Ulrike per altre due estati. Nel 1823 la chiede in sposa ai genitori tramite il duca di Weimar.
Nemmeno ai lettori nasconde il suo amore senile. Dopo il definitivo congedo scrive la struggente Elegia di Marienbad, che diverrà la parte centrale della Trilogia della passione. Tutta la raccolta si incentra sul tema dell’addio: quello A Werther, scritto in occasione del cinquantesimo compleanno del suo personaggio più noto che ormai vive di luce propria; quello da Ulrike, particolarmente malinconico e doloroso davanti al forzato sopravvenire del congedo dall’amore; e quello, esposto in Riconciliazione, da una celebre pianista che gli era stata amica devota.
Compiamo alcuni passi a ritroso. Dal 1816 Wolfgang è vedovo di Christiane Vulpius, una ex fioraia non colta, non bella, grassoccia, dedita alla casa e dileggiata dietro le spalle nei salotti. Christiane accudì con zelo amoroso il marito e fu ricambiata da un affetto sincero. Una volta scopertone il valore, Goethe non disdegnò la quotidiana relazione di cura. Ma nemmeno il vincolo matrimoniale gli impedì di vivere in modo intenso la passione per altre donne, spesso diverse tra loro per età, istruzione, estrazione sociale e grado di bellezza.
L’amore si presta a infinite variazioni, e Goethe ha sempre cercato quel vibrare di sfumature frammentarie che ciascun soggetto amoroso potrà comporre in unità solo a posteriori. Goethe imparò che nessun amore, nemmeno quello per Charlotte von Stein, può esaurirne il nucleo e le potenzialità e dispiegarsi in modo totale. Ma in una vita intesa come viaggio ogni esperienza è una sorpresa, anche al costo di scelte sbagliate o insuccessi. Goethe non è un seduttore: è attratto dalla relazione, non dalla conquista. Per questo vive ogni rapporto come durevole anche quando sa che sarà effimero. I suoi molti innamoramenti non sono mai scaturiti dall’urgere del desiderio erotico; hanno anzi tratto forma dall’aspirazione a intese più alte e più piene.
Le teorie romantiche narravano di passioni amorose a prima vista, spontanee e sorgive, invincibili e irresistibili. Goethe prese sul serio queste narrazioni filosofiche, ma si accorse ben presto che la spontaneità da sola non oltrepassa lo slancio iniziale. L’incontro non è mai facile, non segue un percorso diretto e lineare, ostacoli di ogni tipo si frappongono al comporsi dell’amore.
Goethe ebbe il culto della forza di attrazione e di movimentazione del «femminile». Nei suoi vissuti, anche immaginari, egli vide nella femminilizzazione dei maschi l’elemento che avrebbe smosso la greve e refrattaria concretezza della pensosa operosità del suo sesso. La sua idea di una femminilità integrale fonde armoniosamente la ricchezza spirituale, la finezza del sentire, l’eleganza dei modi, la cura di sé e la grazia del corpo. L’elemento femminile offre al maschio un modello e una ricchezza che, a quel tempo, non trova un’equivalente restituzione da parte maschile. L’amore è un accesso in reciprocità a un cammino ininterrotto di formazione, intersezione e scambio tra i generi.
Come porta d’accesso alla vita, l’amore si associa alla cultura [Bildung]. Entrambi sono una costruzione nutrita da una consapevolezza che non arresta, ma anzi intensifica il flusso della vita. Quel binomio forma la totalità dei talenti naturali, fa lentamente sbocciare le vocazioni, disciplina e indirizza le passioni e le esperienze senza dissiparle, accumularle invano o inaridirle, e accompagna la potenza creativa insita in ogni individuo (a prescindere dal genere) verso una specificità singolare che si sviluppa mediante l’insieme delle attività dello spirito: le scienze, i saperi della manualità, le lettere, la musica, le arti, la cura del giardino e della domesticità, l’ammirazione per la natura, il viaggio, l’osservazione e il sentimento. Il punto dove vita, cultura e natura si incontrano nell’amore suscita le espressioni letterarie, poetiche, artistiche e musicali, mentre la contemplazione della luce, dei colori, della vita organica e inorganica e della natura antropizzata si compone nel paesaggio.
Dal 1775 Goethe vive a Weimar, chiamato dal duca Karl August a fargli da precettore. Il duca, che ama circondarsi di intellettuali e promuove le avanguardie artistiche, vorrebbe trasformare la sua città-stato in un incrocio tra un’Atene tedesca e le corti rinascimentali italiane. All’appello rispondono Herder, Wieland e soprattutto Schiller, scrittore, poeta, drammaturgo, teorico del sublime, del tragico e dell’educazione estetica e intimo amico di Wolfgang.
Come un novello Pericle, il duca vuole dare continuità al primato intellettuale di Weimar. Dota la città di una delle più ricche biblioteche di cui potesse allora disporre la Germania. Consegna a Schiller un teatro che farà da prototipo ai consimili edifici neoclassici. Affida a Goethe l’ideazione di un vasto parco pubblico dopo la brillante prova di architetto paesaggista nel parco privato donatogli dal duca. Sulle colline sovrastanti nel 1933 sorgerà il campo di detenzione di Buchenwald: il meglio e il peggio della Germania nell’arco di un paio di chilometri.
La famiglia Levetzow vive a Groitzsch, un villaggio a cento chilometri da Weimar. Il padre è ciambellano presso il duca di Meclemburgo. Nonostante il titolo baronale, la vicinanza con Lipsia e la condizione facoltosa, i Lewetzow sono piuttosto provinciali: beneducati e civilizzati come la piccola aristocrazia dedita a compiti amministrativi. Quando si conobbero, Ulrike non aveva mai sentito parlare di Goethe. Di lei sappiamo pochissimo: si sposò e fu longeva. Non abbiamo elementi per spiegare perché Goethe si sia innamorato di lei; non certo perché era di 55 anni più giovane.
È a Goethe che dobbiamo guardare. La sua vecchiaia è attiva ma venata di melanconia. Scrive e studia moltissimo, porta a compimento progetti di lunga lena. A Marienbad sente di essere al termine del viaggio. L’anno dopo si illude. Vuole la perfezione che ha sempre inseguito; o forse, come Pigmalione, vuole trasmettere quella ricerca a un’altra persona che, con la purezza e l’incanto di Meister bambino, ne accolga il lascito e la conduca più oltre. Ben conoscendone l’intangibilità, ha inutilmente atteso il compimento amoroso, e vi aspira ancora. Al momento della perdita del primogenito ha conosciuto il versante paterno dell’amore, e vuole includerlo; cerca una continuità più piena rispetto al sangue e alla genitorialità, Dell’immortalità della gloria e delle sue opere non se ne fa nulla. L’opera è l’incarnazione del soggetto che l’ha creata, ma quando si è oggettivata diviene altro in mano ad altri, e intanto con la morte quel soggetto nella sua singolarità svanisce per sempre.
Non pensa a quell’Io che non sarà più; la sua fine è il nulla. Pensa al me che è stato, a quanto resterà di quell’interiorità che gli fu intima, che esubera le opere e che finisce in ombra. Vuole elargire un dono, il dono di quel Sé. E mette in palio tutto il suo fascino.
Ulrike non è interessata a quell’affetto insolito. Lo ricambia fin dove può, in termini di gratitudine, ma immagina altro per sé; le due proiezioni affettive non si incontrano;: il romanticismo non è passato invano; un matrimonio di convenienza non la interessa; e la figura di Goethe è tanto immensa per lei da impedirle di reggere la parte di Galatea. Anche i genitori la distolgono, non senza usare dei riguardi al pretendente: non sono abituati alle promiscuità affettive ed erotiche, a quella fluidità di relazioni che caratterizzavano i salotti della grande aristocrazia europea.
Non sappiamo quanto Ulrike fosse interessata al gran mondo intravisto a Marienbad, agli agi, a una vita di luce riflessa come Christine, a quei rapporti sociali dove si parlava di libri, spartiti, poesie e statue, arredi e parchi neoclassici, o ai costrutti intellettualistici dei letterati e dei filosofi. Le cose per lei sono semplici: quel mondo non ha nulla di speciale da darle; e non prova per Wolfgang né amore né attrazione, al di là della verosimile fascinazione intellettuale. Ulrike si sottrae a un’affinità elettiva che non avverte e che forse giudica un’architettura filosofica tra le tante.
La polarità amorosa teorizzata da Goethe si infrange contro il rifiuto del polo femminile davanti a quei sentimenti, forse goffi ma non perversi. La teoria della complementarità duale dell’amore non resse all’ultima prova. Il bisogno estremo di compimento si volge ad una donna acerba. La vita di Goethe si chiude con uno stallo: una sconfitta esistenziale che non è il mero rifiuto di una giovane, ma il naufragio di un piano di vita amorosa, del vagheggiamento dei due che restano uno (nella loro irriducibile peculiarità) ma divengono… tre, perché l’amore genera un valore aggiunto.
Il duro spessore dell’incommensurabile distanza tra i due si traduce per lei in una silenziosa uscita di scena. Davanti a quel gravame Ulrike vede la libertà nell’anonimato. Wolfgang cade nella depressione e nella mestizia: malattie dei vecchi che probabilmente si era andato a cercare. Leggiamo nell’Elegia di Marienbad: “Per me il tutto è perduto e anch’io per me stesso, / io che finora per gli dei ero il beniamino; / mi misero alla prova, Pandora mi concessero. / Così ricca di beni, ma ancor più di pericoli; / mi hanno spinto verso una bocca prodiga di doni, / ora da lei mi separano e vogliono annientarmi”.
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