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Il Mohicano

RAGAZZO DEL ‘99

ROCCO CORDI' - 22/12/2017

soldatiNel centenario della sconfitta di Caporetto, una battaglia disastrosa che costò agli italiani 11.000 morti, 29.000 feriti e 280.000 prigionieri, mi è tornato in mente mio nonno e i suoi racconti sulla prima guerra mondiale. Lui era un “ragazzo del “99” (1899) la generazione di diciotto anni, per tanti neppure compiuti, che nel 1917, improvvisamente e senza alcuna preparazione, venne catapultata in prima linea nella “grande guerra” che, alla fine, comportò oltre 700.000 morti e mezzo milione di invalidi.

Mio nonno Rocco aveva cominciato fin da piccolo a conoscere la vita dura dei campi.

Come quasi tutti i suoi coetanei era analfabeta e non aveva mai varcato i confini del suo piccolo paese abbarbicato, come un presepe, sul versante Jonico dell’Appennino calabro. Quando i carabinieri lo informarono che doveva partire subito per il fronte non aveva ancora compiuto neppure 18 anni.

Era l’anno 1917. L’Italia era in guerra da oltre due anni e i morti si contavano ormai a centinaia di migliaia. Per rinforzare le fila di un esercito decimato, il governo decise di estendere l’arruolamento obbligatorio anche alle classi più giovani.

Erano i “ragazzi del “99”, 265.000 giovanissimi, privi di conoscenza e di addestramento, ma – per i il re e i governanti – buoni a morire in prima linea.

In quel piccolo paese del sud non si aveva neppure la percezione della gravità di avvenimenti che si svolgevano in una terra lontana, distante almeno 1.500 chilometri.

Rocco salì sul treno che lo avrebbe portato al fronte e l’interminabile viaggio verso l’ignoto, attraversando paesaggi e ambienti sconosciuti, servì almeno a fargli conoscere tanti altri giovani, la maggior parte contadini e analfabeti come lui, che per la prima volta si allontanavano dalle loro famiglie e dalla loro terra. Ognuno parlava il suo dialetto e, per comprendersi, dovevano spesso aiutarsi con i gesti.

Finita la guerra Rocco si considerò fortunato perché riuscì a tornare a casa vivo pur portandosi per sempre sul proprio corpo i segni lasciati dalle schegge di una granata che gli era esplosa vicino. Lui non voleva mai parlare della guerra, anzi ironizzava spesso sui racconti e le vanterie di altri.

Quando, cedendo alle insistenze dei nipoti, cominciava a raccontare si capiva subito che la “sua” guerra era ben diversa da quella riportata sui libri di scuola. Una guerra strana in cui si faceva fatica persino a capire chi fosse il nemico e dove stava.

Per Rocco erano tutti “tedeschi”, anche se quelli dell’altro fronte erano in realtà austriaci. Per lui erano “tedeschi” persino molti dei suoi commilitoni che parlavano una lingua incomprensibile. Lui la guerra me la sintetizzava così:

“Dopo un po’ di giorni dal nostro arrivo abbiamo sentito i colpi di cannone e le mitraglie del nemico, noi avevamo invece dei vecchi fucili e gli elmetti non bastavano per tutti.

Dinnu c’a paura faci novanta, ma a mmia mi facìa quattrucentu tutti i vòti chi sentìa chiju “ta pumm, ta pumm” (Si dice che la paura fa novanta, ma a me, ogni volta che sentivo quel “ta pumm” “ta pumm” la paura mi faceva quattrocento).

Là siamo arrivati e là ci siamo fermati. Per mesi e mesi acquattati in trincea ad aspettare l’assalto del nemico o l’ordine di attaccare. Pidocchi, fame e freddo erano sempre con noi, non ci abbandonavano mai, anzi aumentavano. Non potevamo andare né avanti, né indietro: davanti ti sparava il nemico, se tornavi indietro ti sparavano i carabinieri.

Una notte, mentre ero di guardia, si avvicinò un soldato con gli occhi sgranati, sembrava che piangesse, e diceva qualcosa che io non capivo. Poi cominciò a fare dei gesti. Si portava ripetutamente la mano alla bocca e finalmente capii che voleva qualcosa da mangiare. Presi un tozzo di pane duro che conservavo nel tascapane e glielo porsi guardingo. I suoi occhi sembravano contenti. Sparì rapidamente nel buio della notte, così come era arrivato.

Forse era un tedesco o forse era uno dei nostri. Non l’ho mai saputo”.

Per sua fortuna nonno Rocco non sapeva neppure che chiunque e in qualsiasi modo avesse aiutato il nemico sarebbe stato fucilato sul posto e senza processo: così aveva ordinato il Generale Cadorna.

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