Don Tarcisio non riusciva a prendere sonno. Si girava e rigirava nel letto come se avesse per giaciglio un duro asse di legno, di quelli che perdono le schegge perché mal rifiniti, o troppo vecchi, o poco stagionati. Ma la spina che lo infastidiva (e lo teneva sveglio) don Tarcisio proprio non la trovava: la caldaia della chiesa era stata aggiustata, i microfoni controllati, gli addobbi sistemati, i busti d’argenti ripuliti e issati sull’altare, la scorta di candele arrivata, gli avvisi stampati e distribuiti, il coro – questo sì era un mal di testa – dopo 30 prove e sfuriate e moine, finalmente pronto a eseguire senza strilli il suo amato Astro del ciel…
Ma don Tarcisio non prendeva sonno. Cambiò categoria di pensieri (perché don Tarcisio, tra i suoi tanti difetti, non annoverava certo quello del disordine: un archivio parrocchiale impeccabile, diviso per genere, anno, specie e numero, ogni faldone con la sua bella etichetta sulla costa, un regesto del contenuto e un indice numerato. Così i suoi pensieri, divisi per categoria, genere, importanza, venivano diligentemente riposti nei cassetti della memoria per essere prontamente richiamati alla bisogna) e aprì la casella “Amministrazione”. Le bollette tutte pagate – sospirò il parroco in pigiama di flanella soppesando il costo vivo dell’innocuo tran tran parrocchiale a fronte delle impellenti richieste dei confratelli in missione – ma non si può lasciare la gente al freddo, in chiesa, e più si moltiplicano i capelli bianchi nel suo gregge, tanto si accelerano le cifre del contatore; e poi carta, toner, telefono, cellulare, benzina, contributi alla perpetua, assicurazione, antifurto… Il bilancio quest’anno non era stato tragico, appena tinto di un rosso slavato, quasi rosa: e la banca (di quelle di paese, dove gli impiegati ti salutano per nome e ti chiedono della famiglia) era stata molto tollerante.
Apre un altro cassetto, don Tarcisio, questa volta con una certa apprensione: i doveri ministeriali, gli impegni legati alla veste, che un giorno lontano si è assunto con entusiasmo e assoluta dedizione. Gli sembra di essere inginocchiato al confessionale del seminario, e spiare tra i fori della grata a forma di croce il volto grigio del Prefetto, se oggi è di buon umore o incattivito dal mal di fegato, e snocciola il rosario dei suoi doveri di parroco: ha pregato con regolarità, non ha trascurato il breviario, ha detto Messa con discreta concentrazione, ha visitato gli infermi, ha sostituito il prevosto ammalato, ha partecipato alla processione in Basilica, ha presieduto il consiglio pastorale, il consiglio di amministrazione, il gruppo missionario, la commissione famiglia, il gruppo Caritas, il gruppo catechiste, il comitato per la festa di S. Rosalia…. ha anche confessato, benché da qualche tempo la cosa gli costi incredibilmente e inspiegabilmente un enorme sacrificio.
In realtà, c’è nel suo specchiato ordine mentale una cartellina con la scritta “in sospeso”: il giro tradizionale delle benedizioni natalizie. Quest’anno don Tarcisio – chiamato dai maligni don Tarcigno – non troverà il tempo di portare alle sue pecorelle la Benedizione del Signore. Ha dalla sua gli impegni pressanti, il tempo malvagio, la carenza di chierichetti, l’età che avanza (nonostante la robusta costituzione brianzola): ma la coscienza formata alla severa scuola del seminario gli dice (sottovoce, fastidiosamente) che si tratta di pretesti. “Lo farò per Pasqua, come tanti miei confratelli: tempo più mite, giornate più lunghe, la gente meno indaffarata…” ripete a se stesso per la milionesima volta, per mitigare l’affacciarsi del rimorso.
Ma la verità, don Tarcisio, la verità con la V maiuscola, tu lo sai bene che non è questa.
Girare per le strade sporche, mal tenute, rutilanti di stupide sandaline illuminate, entrare in case da cui pendono come impiccati tristi babbinatale, in appartamenti carichi di cattivo gusto e spogli di simboli cristiani, farsi chiudere la porta in faccia e contrattare l’ingresso come un venditore ambulante, e se va bene snocciolare tutto d’un fiato le formule e anche le risposte, mi scusi don ma stavo uscendo; e tornare la sera con gli occhi colmi di visi sconosciuti e indifferenti. Tempo buttato, si è detto l’anno scorso. Così, a metà novembre, ha inserito tra gli avvisi – senza parere – la sospensione temporanea del giro di benedizioni, camuffata da decisione del consiglio pastorale (il quale, da che mondo è mondo, non decide nulla e spesso non consiglia nemmeno).
La verità, don Tarcisio, è che la gente, la tua gente, non ti piace più. “Non hanno più bisogno di Te, Signore. Cercano altro, chiedono altro: piacere, ricchezza, giovinezza eterna, magia, lieto fine a ogni costo … Non ti aspettano. Non ti vogliono. Non gli interessi”.
Un soffio d’aria gelida trapassa la tiepida coperta e fa sobbalzare il prete. Allunga la mano verso l’abat jour, tasta nel buio e non trova: ma dov’è finito il comodino? Si illumina invece la parete davanti a lui, e ingrandisce a vista d’occhio, come il telone del vecchio oratorio che supportava le tenere storie del Mondo Piccolo della bassa padana. Don Tarcisio, attonito, riconosce location e protagonisti: sono le vie del suo quartiere, le case dei suoi parrocchiani, i volti della sua gente. C’è anche lui, il parroco, viso serio, anzi corrucciato, con quel naso a becco e le sopracciglia folte, le pieghe scavate tra gli occhi, che avanza a grandi falcate lungo la navata della chiesa, raddrizza un quadro della Via Crucis, esce di scena. Un bravo prete, ma così scostante… È l’età, succede anche a loro… Poveretto, tanto solo, adesso che non ha più neanche la mamma.
Chi pronuncia queste parole? Il video è muto, ma don Tarcisio sente voci diverse, indistinte, un gran brusio che di quando in quando si fa frase, pensiero. Tante luminarie, quest’anno, ho bisogno di tirarmi su il morale… Ma perché nella vita le cose vanno sempre a finire a p…? Piccolo mio sei la gioia del mio cuore… Non mi hanno telefonato neanche per gli auguri… Dio perché mi castighi così?… La vita è splendida…La vita fa schifo…Come sono fortunata ad averti… Non ne posso più, prima o poi la faccio finita… Se potessi tornare al mio paese…
Le strade sono quelle solite, i volti quelli noti, ma don Tarcisio vede con altri occhi, pensa con altri pensieri, sente con altri sentimenti. Ha il cuore che scoppia, il polso che batte affannato: come contenere le gioie, la fatica, i dolori, i desideri, le sensazioni, i ricordi; il bisogno di tutta quella gente, di tutte quelle vite, che non sono i numeri dei suoi registri, tot nati tot battezzati, tot comunicati tot morti, non sono le sue algide categorie – praticanti tiepidi indifferenti lontani – ma mondi vibranti e pensieri segreti, ferite aperte, gioie indicibili, dolori disperati. Sono ANIME – si sorprende don Tarcisio a usare un vocabolo che da anni non pronuncia più – sono anime… mendicanti, assetate. Alla ricerca di qualcosa. In attesa di Qualcuno. E don Tarcisio è tutte loro, e tutte loro sono don Tarcisio: “O Dio che cosa ho fatto, che cosa ho fatto!”
Don Tarcisio che piange? Mai sentito, impossibile.
Ma le lacrime chiamano il sonno desiderato e il parroco si addormenta a poco a poco masticando un confuso miserere.
Ma dov’ è finito? dove diavolo l’ha cacciato? “Don Tarcisio, non ha visto per caso il pacchetto che le ho portato ieri l’altro?” E sì che di solito è superordinato, maniaco anzi. Fino a ieri almeno. “Era un cd, quello per il venticinquesimo della chiesa, sa quello girato dalla Sofia che studia da regista…”. Ecco la custodia, e il cd… dentro nel portatile: non l’ha perso, meno male. Perché con questa novità della vigilia… “Ah, ma allora l’ha già guardato… Bello eh? Gli scorci del paese, la gente… Ha visto che c’è anche lei, ma non mi sembra venuto molto bene, meglio rifarlo quel pezzo lì. Allora cosa ne dice, don Tarcisio, è venuto bene, vero? è proprio… proprio parlante!”.
Ma Don Tarcisio non lo sente. È uscito impaziente e leggero per il giro delle Benedizioni.
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