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Cultura

CHIESA E DIRITTO DI PROPRIETÀ

LIVIO GHIRINGHELLI - 03/03/2012

 

Dai primi tempi della Chiesa i Padri non hanno mai riconosciuto il diritto alla proprietà privata come assoluto, intoccabile, bensì sottolineato la sua funzione sociale. Nutrivano simpatia per una qualche forma di comunione dei beni, avendo a modello la comunità di Gerusalemme (Basilio, Tempore famis et siccitatis: emuliamo l’esempio della prima comunità cristiana, per i quali tutto era comune, vita, anima, consenso; comune era la mensa; indivisa la fraternità). Per loro l’ordinamento privatistico è un fatto successivo all’età primitiva, frutto del peccato d’origine. Dei beni che si posseggono si è semplici amministratori a vantaggio di tutti, onde la condanna sia degli apostolici che di quanti pensano solo a se stessi senza pensare ai poveri. I ricchi si impadroniscono di ciò che è fatto per tutti e se l’appropriano in virtù del diritto del primo occupante (Basilio,Omelia VI, In illud Lucae). “E tu ricco, non sei forse uno spogliatore, quando ti approprii i beni che hai ricevuto in amministrazione?” (Omelia VII, In divites). Così Ambrogio.

Venendo a tempi più recenti, Leone XIII nella Rerum Novarum riconosce solo timidamente il diritto di accedere alla proprietà privata. “Le leggi devono favorire questo diritto e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari”. Dell’istituto è riconosciuta la piena legittimità. Con la Quadragesimo anno Pio XI riconferma il valore della proprietà privata, richiamandone la funzione sociale. L’uso non può essere soltanto individuale, ma si tratta di un dovere di carità, non di giustizia. “E’ contrario a verità il dire che il diritto di proprietà venga meno o si perda per l’abuso o il non uso che se ne faccia”.

Tra i titoli di acquisto non si può escludere l’occupazione. Pio XII parla espressamente di diritto alla proprietà. Nel Radiomessaggio del 10 giugno 1941 si afferma che “i beni da Dio creati per tutti gli uomini equamente affluiscano a tutti, secondo i principi della giustizia e della carità”. Il diritto originario sull’uso dei beni materiali non è tanto giustificato su base teologica , quanto ricondotto alla natura (AAS 33 – 1941 – 199). Per Giovanni XXIII (Mater et magistra, 15 maggio 1961) tale diritto naturale va riaffermato, perché “fondato sulla priorità ontologica e finalistica dei singoli esseri umani nei confronti della società (n.116).

La Gaudium et spes (Concilio Vaticano II), mentre ritiene che tutto debba partire dalla persona in direzione della stessa per il suo perfezionamento, recita: “Quali che siano le forme della proprietà , adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo le diverse e mutevoli circostanze, si deve sempre ottemperare a questa destinazione universale dei beni”. L’uomo usandone “deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede , non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri (GS n. 69).

La Populorum progressio di Paolo VI prosegue in merito al nostro tema : “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché quel che è dato in comune per l’uso di tutti, è ciò che tu ti annetti” (PP n.23). L’Enciclica delinea le coordinate di uno sviluppo integrale dell’uomo e di uno sviluppo solidale dell’umanità. La giustizia è ora concepita su scala mondiale. L’Octogesima adveniens riflette i problemi della società postindustriale.

Giovanni Paolo II con la Sollicitudo rei socialis (1987) è convinto che “ i beni di questo mondo sono originariamente destinati a tutti” (n.42), il che significa il principio tipico della dottrina sociale della Chiesa: la destinazione universale dei beni.Sulla proprietà privata grava un’ipoteca sociale. Nella Laborem exercens (1981) aveva detto che il diritto alla proprietà privata è subordinato al diritto all’uso comune (n.14). Il che non significa la necessità di un conflitto fra le due proposizioni, ma di un’armonizzazione, per quanto difficile.

Ecco perché risulta uno scandalo la concentrazione della proprietà della terra, una cattiva ripartizione dei beni o l’esclusione, specie nella dimensione geografica, di tanta parte della popolazione dal beneficio, che induce all’emigrazione. Né è possibile operare una distinzione di comodo tra beni di natura e prodotti dell’azione umana.

Nel Messaggio per la giornata mondiale della pace (2005, n.7) Giovanni Paolo II asserisce: “Il bene della pace va visto oggi in stretta relazione con i nuovi beni , che provengono dalla conoscenza scientifica e dal progresso tecnologico”. Per non aggiungere che Benedetto XVI nella Caritas in veritate (n.48) chiarisce: “ I progetti per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive”.

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