Mi piacerebbe cancellare dalla mia lingua madre le parole e le frasi che ritengo nocive, e ripulire così il pensiero dalle immagini insane generate dal solo fatto di pronunciarle. Vorrei preparare un elenco da consegnare all’Anno che sta per andarsene perché se le porti con sé.
Sono consapevole che il processo che potrà eliminare le espressioni per me odiose è quello, lento e purtroppo non governabile, della maturazione collettiva.
Qualcuno però un tale potere lo detiene già. È il presidente USA Trump che ha elaborato un proprio elenco, per ora breve, di parole da censurare perché ritenute in contrasto con il suo programma. L’impressione è che certi concetti non gli piacciano proprio: lo irritano, lo pongono davanti alla necessità di confrontarsi con le diversità presenti nella società.
Non a caso “diversità” è una tra le sette parole censurate.
Me lo immagino The Donald, che apre un giornale, cartaceo oppure online, e balza sulla sedia per la presenza nello scritto di una delle seguenti parole o frasi: basato sulla scienza, basato sulle evidenze, diritto, diversità, feto, transessuale, vulnerabile.
Alla massima autorità sanitaria statunitense, il Center for Disease Control and Prevention (Cdc), si impone di non usare, nei documenti per il bilancio del prossimo anno, i termini incriminati.
Censura insopportabile che odora di fondamentalismo.
Le avvisaglie c’erano state ma a me erano sfuggite. Riferendosi all’ambiente, Trump aveva affermato che l’espressione “cambiamenti climatici” doveva essere sostituita con la parola “clima”.
A rivelare la blacklist è stato il Washington Post: la dirigente dei servizi finanziari, Alison Kelly, ha comunicato al Cdc le espressioni che dovranno essere “espunte”. In qualche caso sono previste le sostituzioni: ad esempio, “basato sulle evidenze” e “basato sulla scienza”, diventano “basato sulla scienza in considerazione degli standard e dei desideri della comunità”.
E in assenza di alternative linguistiche? Si censura e basta. Con la conseguenza, ce lo insegnano gli psicolinguisti, che la cancellazione di quella parola produrrà l’annebbiamento del concetto ad essa collegato.
Il presidente Trump non è il solo censore del linguaggio: si trova in compagnia dei militari birmani che hanno proibito a Papa Francesco di nominare i Rohngya, il gruppo etnico ingiustamente emarginato e poi perseguitato sotto gli occhi del mondo intero.
Anche il fascismo aveva prodotto una capillare epurazione del linguaggio. Una per tutte, il “lei” sostituito dal “voi”, che suggerì al mitico Totò lo sberleffo della gag del Galileo “Galivoi”. La campagna condotta contro i termini stranieri ritenuti lesivi dell’identità nazionale era stata avviata con l’introduzione di una tassa sulle insegne straniere già nel 1923; per lunghi anni venne perseguita con accanimento attraverso una capillare propaganda che coinvolse la scuola, la radio e la stampa. Lo scrittore Paolo Monelli sulla Gazzetta del Popolo teneva una rubrica chiamata “Una parola al giorno”.
Propongo alcune parole, poche per ora, che amerei veder sbiadire nel tempo del prossimo anno, scolorire tanto da divenire irriconoscibili, al punto da farsi così desuete da risultare sconosciute alle future generazioni.
Straniero: estraneo, esterno; perché nessuno è straniero.
Femminicidio: uccisione diretta o provocata, eliminazione fisica o annientamento morale della donna; perché trovo terribilmente disturbante la presenza del termine “femmina” nel vocabolo più brutto dell’anno.
Handicappato: svantaggiato rispetto ai propri simili per disagi fisici o mentali, motori, sensoriali, intellettivi o affettivi; perché è giunto il momento che ogni persona abbia il proprio posto nel mondo.
Rottamazione: la volontà di disfarsi di qualcuno che secondo noi sta in politica da troppo tempo; perché avverto nel suono della parola il clangore della demolizione che ci porta a ridurre il tasso di tolleranza.
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