È un’Italia con un sistema politico sempre più in crisi quella che si avvicina alle elezioni politiche della prossima primavera. Questo non tanto perché si prospetta un cambio di governo, il che in democrazia non è drammatico ma anzi normalmente salutare, ma perché in tutti e tre i maggiori schieramenti, ossia centrosinistra, centrodestra e Movimento 5 Stelle, si registra una preoccupante crisi di leadership.
La comparsa sulla scena politica nazionale di Matteo Renzi è stato l’evento-chiave dei cinque anni trascorsi da quando nel febbraio 2013 venne eletto il Parlamento che ora giunge a scadenza. Alla fine di quello stesso 2013 Matteo Renzi diventava segretario del Partito democratico, Pd, principale erede dell’antico Partito Comunista Italiano, e un anno dopo, nel febbraio del 2014, era presidente del Consiglio dei Ministri, ossia capo del governo.
Giunto al massimo della sua popolarità con le votazioni per il Parlamento Europeo del 2014, quando raccolse circa il 40 per cento dei voti, secondo i sondaggi demoscopici più recenti il Pd è oggi sceso al 23,4 per cento dei consensi. Dal dicembre 2016 capo del governo non è più Renzi — dimessosi a seguito della sconfitta subita il 4 dicembre 2016 in un referendum popolare che aveva incautamente trasformato in un voto di fiducia su di lui — bensì Paolo Gentiloni, già suo ministro degli Esteri, schivo aristocratico romano con un sorprendente passato giovanile di agitatore e di capo degli studenti maoisti del Lazio.
Se le scelte di voto che i sondaggi demoscopici registrano in questi giorni perdureranno fino a primavera, alle prossime elezioni si prospetta una vittoria del centrodestra (37% dei consensi) sul centrosinistra (un po’ più del 26%), con il Movimento 5 Stelle che con il 28,2 % resta ai margini pur essendo il singolo partito più votato. Nel centrosinistra la leadership di Matteo Renzi, primo segretario del Pd di origine non comunista, è perciò stretta d’assedio. Le forze schierate contro di lui sia fuori che dentro il Pd sono tuttavia forti quanto basta per indebolirlo, ma non abbastanza per rovesciarlo.
Nel centrodestra la risorsa ma anche il problema di sempre è Silvio Berlusconi. Alla ribalta politica dal 1993, Berlusconi si è dimostrato tanto capace di vincere alle votazioni quanto incapace, una volta giunto al governo, di fare la grande riforma liberale che aveva promesso agli elettori ottenendo perciò la maggioranza dei consensi. Ora contro di lui giocano anche l’età avanzata, è nato nel 1936, e i problemi di salute.
Secondo i sondaggi dell’esperto Nando Pagnoncelli, pubblicati l’altro giorno dal Corriere della Sera, nei tre principali partiti di centrodestra — Forza Italia di Berlusconi, la Lega Nord di Matteo Salvini e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni — si riconosce rispettivamente il 16,7, il 15,3 e il 5 per cento degli elettori. In Forza Italia per sua evidente volontà attorno a Berlusconi c’è il vuoto: l’uomo ha sempre accuratamente evitato che qualcuno potesse fargli ombra, e ci è riuscito benissimo. Tale scelta gli costa però cara oggi che deve tenere a bada Matteo Salvini, personaggio di poche qualità e di molte ambizioni che muore dalla voglia di prendere il suo posto di leader del centrodestra e domani del governo.
Il Movimento 5 Stelle — fondato nel 2009 dall’ex-comico e oggi leader politico Beppe Grillo secondo un progetto che si ispira all’illuminismo autoritario del filosofo ginevrino settecentesco Jean-Jacques Rousseau — non solo ha una linea politica di rottura che perciò lo condanna all’isolamento, ma a suo modo sta vivendo anch’esso una crisi di leadership. Il suo candidato premier, il giovane napoletano Luigi Di Maio, non decolla malgrado il sostegno che gli dà Beppe Grillo, il quale secondo il suo stile non è mai entrato in Parlamento ma segue i 5 Stelle da lontano, dalla sua casa sulle colline a monte di Genova. Frattanto il romano Alessandro Di Battista, colui che era l’altro possibile candidato premier, si è ritirato a vita privata evidentemente in attesa di ricomparire altrove o quantomeno altrimenti.
Da ogni parte la si guardi la scena politica italiana mostra insomma segni di grave stallo. Non sorprende perciò che sia in continua crescita la percentuale di coloro che oggi dicono di non sapere per chi votare e se votare, che ora si calcola siano il 36,3 per cento. È su questo preoccupante orizzonte che si collocano i grossi problemi che per l’Italia è sempre più urgente affrontare.
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