Sopravvissuta all’olocausto, allieva e collaboratrice di György Lukács, esponente di rilievo della Scuola di Budapest, Agnes Heller (1929) si segnala nell’ambito della tendenza critica del marxismo, esercitata dall’interno del sistema, nella sfera del comunismo orientale.
L’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956 l’induce a un forte processo di revisione e ne consegue nel 1959 l’espulsione dall’Università di Budapest. Lavora come ricercatrice fino al 1973 all’Istituto di sociologia dell’Accademia delle Scienze. In un viaggio a Firenze intende celebrare nel Rinascimento un mondo adeguato all’uomo. Protesta di nuovo in modo veemente nel 1968 contro l’invasione della Cecoslovacchia. Dal 1978 è docente all’Università australiana di Bundoora (Victoria), quindi a New York.
È famosa per la teoria dei bisogni radicali in contrapposizione alla visione marxista. La teoria dei bisogni è il terreno di scontro tra soggettività e potere. Per Agnes Heller i bisogni radicali si distinguono in introspezione, amicizia, amore, convivialità, gioco di contro a quelli alienanti (possesso di beni, soldi e potere). L’alienazione è colta soprattutto negli aspetti microscopici della vita quotidiana. Vale dei bisogni la natura qualitativa, non quantitativa; la profondità, non l’estensione.
La sua interpretazione del marxismo è in chiave antieconomicistica e antropologica. L’analisi è integrata con descrizioni sociologiche e fenomenologiche. Lo scopo è di superare tutti i rapporti di subordinazione e di dominio; tematiche privilegiate: etica, sessualità, famiglia. Tra le opere fondamentali: Sociologia della vita quotidiana (1970), La teoria dei bisogni in Marx (1973), Le condizioni della morale (1984; tr.it. Roma 1985), Etica generale (1989; tr.it. Bologna 1994), presupposti teoretici e interpretativi; a Seguire Filosofia morale, aspetti normativi.
I problemi dell’etica sono affrontati a partire da una antropologia marxista rimeditata e integrata con l’analisi degli istinti, degli affetti, della prima natura umana (biologica), della seconda natura (psicosociale), dei bisogni della personalità. La prospettiva iniziale è di tipo kantiano (sulla nozione di bene gli uomini universalmente concordano, ma la premessa consiste nello storicizzare: le persone buone esistono qui e ora (come sono ora e qui possibili?). La concezione generale della bontà è cambiata nel tempo. Tre sono i tipi di strutture, i “tipi ideali” della storia umana: 1) società dominate dalla conformità al gruppo (la valutazione individuale è scoraggiata) ; 2) l’autorità morale (sorgere della nozione di coscienza, assunzione di responsabilità del singolo, relazione dialettica, anche conflittuale, tra autorità esterna e interna, tra società e coscienza); 3) oggi l’individuo è diventato soggetto unico della morale, modello in fieri, con l’alternativa o del soggettivismo o d’essere in grado di motivare le scelte morali con argomentazioni comprensibili per gli altri membri della società. I criteri valgono quindi intersoggettivamente (arbitro ultimo quindi l’individuo, ma non unico).
Si tratta di un’etica non prescrittiva. L’argomentazione non è come per Habermas orientata all’intesa; la decisione scaturirà dal comportamento quotidiano di ogni individuo a prescindere dalle conseguenze a lungo termine d’ogni sua scelta.
Mentre Habermas concepisce una sfera morale trascendentale, per Heller la morale non può essere separata dalle altre manifestazioni della vita sociale, né può essere dedotta da premesse più generali. La categoria di vita buona non deve essere dedotta né costruita da un principio o da una idea della morale, ma ricondotta al contesto sociale. La definizione socratico-platonica è formale, non ha contenuto positivo. Heller definisce non la virtù, ma le condizioni della stessa. La virtù è adesione personale consapevole all’eticità del proprio ambiente di riferimento.
La vita buona è un modo di vita non derivabile da norme generali. Rispetto a Kant è la prospettiva empirica che la Heller propone immediatamente. La fondazione dell’etica della modernità esige una morale situata. Comunque esiste un insieme di virtù ritenute tali in tutte le diverse culture. È preferibile parlare di condizione, più che di natura umana.
Ogni uomo possiede alla nascita delle disposizioni o tendenze a svilupparsi come essere sociale, risultato dell’intera storia dell’umanità, sedimentato a livello genetico (a priori genetico): perché queste disposizioni si sviluppino, il bambino deve interiorizzare i modelli della società (a priori sociale): educazione e socializzazione. La socialità è condizione originaria.
Nel mondo contemporaneo si presentano norme etiche differenziate, modelli di riferimento plurimi. Tra l’a priori genetico e quello sociale si determina una tensione. La costruzione del Sé, di una individualità autocosciente presuppone l’interiorizzazione di norme. L’etica è la condizione del mondo, il fatto che il mondo abbia senso. Presuppone l’esistenza di un sistema di regole che orienti ogni individuo nei suoi rapporti con gli altri e con le cose. E dal sistema di regole dipende anche la conoscenza del mondo, non solo la prassi. La regolazione sociale ha sostituito quella istintuale. L’individuo è immerso in un universo di norme (Heller si rifà al termine hegeliano Sittlichkeit, eticità).
All’interno della gerarchia delle norme distingue una categoria primaria, che consiste nella capacità di distinguere tra bene e male; le secondarie sono relative a contenuti specifici (innanzitutto la definizione di bene). In ogni società questa gerarchia è organizzata in un tutto unitario. La presa di coscienza critica dell’ordinamento è chiamata coscienza storica.
Nelle società tradizionali ragion pratica (autorità interna all’individuo) ed eticità coincidono; nel mondo moderno invece, a partire dalla Riforma, si crea una frattura. La modernità separa autorità interna ed esterna (onde la coscienza e la vergogna). La seconda si avverte nel riconoscimento di una autorità esterna (il giudizio degli altri); la coscienza si avverte nell’interiorizzazione dell’autorità, per cui l’individuo risponde del proprio comportamento di fronte a se stesso. Essendo i modelli di riferimento molteplici, può scegliere tra norme diverse, nessuna delle quali è giusta in via di principio.
Ora l’individuo è in dialogo argomentativo con altri e l’argomentare si colloca in una dimensione sociale. Se si pone la coscienza come arbitro unico non è necessario giustificare le norme poste a fondamento del proprio comportamento; se ci si attiene a indicazioni di un’autorità esterna non morale si cade nei regimi totalitari.
La scelta è realmente tale, se non è semplicemente una conclusione razionale, bensì deve diventare eticità, costume culturale, modo abituale e spontaneo, non riflesso, di orientare il comportamento.
La proposta conclusiva della Heller sta in un ethos debole, che non deve risultare onnicomprensivo, non deve coprire l’intero ambito del comportamento. La società oggi si articola in sfere ed ambiti differenziati, morali distinte. È una pluralità positiva, purché riesca anche a stabilire un terreno comune sulle scelte.
È tipica della Heller la diffidenza verso ogni forma di assunto dogmatico, come la battaglia per un socialismo democratico e pluralista. Impellente è la necessità di trasformare le forme della vita quotidiana, abbandonando ogni finalismo in un’epoca in cui le grande narrazioni sono finite e si impone la rinuncia ad ogni aspettativa messianica.
Nella nostra società dinamica la Heller opta per il libero mercato, la libertà di creare istituzioni politiche, l’accumulo di conoscenze scientifiche e tecnologiche, per una democrazia di tipo rappresentativo (la Arendt invece preferisce una democrazia di tipo diretto).
Quella dell’olocausto poi è da considerare come una insensatezza assoluta.
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