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Stili di Vita

THE SQUARE

VALERIO CRUGNOLA - 15/12/2017

squareSe ne avrete occasione, vi consiglio di vedere il film The Square e di prendervi un attimo per riflettere. Non è un capolavoro, il racconto procede per frammenti che dovrebbero caratterizzare il personaggio e così perde per strada dei pezzi, ma dà ugualmente di che pensare. È la storia di un percorso di apprendimento che fa mutare il punto di vista e con ciò, forse, cambia l’approccio alla vita. Di queste «conversioni» rimaste in sospeso è piena la storia del cinema, ma l’oggetto del film è attuale.

Antonio Polito vi ha visto «una grande metafora della sordità raggiunta dalle società affluenti e sofisticate dell’Occidente nei confronti delle richieste di aiuto che ci vengono dai “diversi”, da chi è fuori, o viene da fuori, o vive fuori, o sta sotto, così sotto di noi che per guardarlo dobbiamo affacciarci su un abisso e non ne abbiamo voglia, o abbiamo perso la capacità di farlo senza provare vertigini e nausea».

La scena si apre in una piazza nel centro di Stoccolma, dove le persone si muovono indaffarate in piena estraneità le une con le altre. Tra di loro c’è un curatore d’arte contemporanea che per professione organizza mostre, installazioni ed eventi. Christian è un uomo ricco, elegante, «per bene» come si può esserlo nella Svezia di oggi. È un uomo noto: appare in tv e la gente lo riconosce per strada. È divorziato da poco e ha due figlie. E ha fascino: le donne si fanno avanti e lui non si nega.

Il regista fa di Christian il prototipo dello svedese di successo: è attento alla propria immagine, fa le «cose giuste» – ha l’auto elettrica, abbraccia cause umanitarie imbottite di retorica, soddisfa il desiderio di una mendicante di mangiare una ciabatta senza cipolla –, è politicamente corretto ma senz’anima e vive, come tutti, estraneo ai drammi di chi soffre o sopravvive ai margini di un mondo che a malapena intravede di sbieco, senza posare gli occhi, senza osservare. Un pieno di vuoto riempito da un ego in cui tutti sono immersi, ma che non lascia vie d’uscita.

Anche i poveri che Christian casualmente incontra sono prigionieri di un mondo senza uscita. Diversamente da Christian, che non ha bisogni, non vivono per il superfluo, ma sono imbruttiti dal lavoro di sopravvivere, che anziché riscattarli li rende meschini e sgradevoli. Il lavoro di povero rende ignobili. La barriera è duplice e reciproca: chi sta bene e ha tutto non sa vedere l’esistenza di chi sopravvive nei sempre più estesi e numerosi interstizi grigi delle società opulente; e chi è privato di ogni possibilità di riscatto non ha domande su di sé e non ha nulla da comunicare alle classi agiate che possa scuoterle, turbarle e interrogarle.

Christian è impegnato a promuovere un’installazione che consiste in un quadrato luminoso deposto sui cubetti di porfido del cortile del museo. «Il quadrato – così recita lo stucchevole “spiegone” dell’opera – è un santuario di fiducia e amore, entro i suoi confini tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri». Tutta la retorica dell’accoglienza e dell’inclusione sta in quel quadrato. Non è grazie a questa retorica che la società migliora e che tutti diventiamo più sensibili agli altri. Ma quel che conta è fingere di crederci.

Il dileggio, talora esilarante, dei riti estenuati e prevedibili dell’arte concettuale è un filone sarcastico del film che mostra quanto Christian viva in una bolla autoreferenziale, narcisistica e feticista. Da culto la telefonata allarmata di un’impiegata del museo in preda al panico perché l’omino che ripuliva il pavimento di una sala riempita da cumuli di ceneri umane, osservata distrattamente dai visitatori, aveva impercettibilmente rovinato la sacralità dell’opera.

In verità l’arte è un business che si fonda sulla bravura nel fare parlare di sé. L’«evento» è la pubblicità che lo precede e l’accompagna; è il marketing che deve titillare il narcisismo e il feticismo dei donatori, dei collezionisti, dei giornalisti e del pubblico. La metafora del contemporaneo non sta nel presunto oggetto dell’arte, ma nel processo che lo genera.

Mentre Christian attraversa la piazza, un’artista di strada crea un capannello, prima attira e poi distoglie l’attenzione del critico e lo deruba del portafoglio e dello smartphone. Christian si accorge del furto, ma il capannello si è già sciolto e si trova solo. Non è preoccupato del danno subìto: si sente leso nella sua immagine di cittadino di un paese civile dove non si consumano furti.

Non appena riesce a raggiungere il suo ufficio chiede una mano a un assistente di origine mediorientale, perfettamente conforme al cliché dell’accoglienza svedese. L’assistente localizza lo smartphone in un anonimo condominio alla periferia di Copenhagen: un mondo che Christian ignora. I due imbastiscono una strategia secondo loro politicamente corretta: si tratta di scrivere una lettera in cui, tra tante circonlocuzioni garbate, si chiede la restituzione del maltolto, e di infilarla nelle cassette postali situate nelle porte dei vari appartamenti. La preghiera è di lasciare un pacchetto in un bar presso la stazione. E il pacchetto arriva tempestivo.

La Svezia è salva, sembra pensare Christian: in Scandinavia anche i ladri sono dei gentiluomini. Rassicurato, regala i soldi ritrovati nel portafoglio alla mendicante che non gradisce la cipolla. Non è un atto di generosità o di empatia, il suo, ma di compiacimento e di riconferma di un mondo che si mostra all’altezza delle aspettative e cela così la propria impostura.

Ma qualche giorno dopo arriva a casa del critico in modo del tutto imprevisto un ragazzino che abita nel condominio dove sono state lasciate le lettere. Non vuole passare per ladro e ripetutamente chiede gli sia restituito l’onore agli occhi dei genitori. Non vuole soldi, ma un atto riparatorio. Sulle prime Christian resta completamente sordo alla richiesta del piccolo. Ma il ragazzino è ostinato, e la richiesta si fa più pressante.

Sino a quel momento Christian è rimasto dentro i binari convenzionali – bene educati, controllati, contesi, misurati – alle richieste di aiuto che gli sono venute dalle figlie, che copre di oggetti e di apparente cura senza saper parlare loro, o da una donna con cui ha trascorso una notte di sesso molto performante e che cerca invano di offrirgli l’aurora di un possibile amore. È rimasto impassibile in un momento professionalmente difficile, quando la pubblicità dell’installazione del quadrato ha sollevato i furori perbenisti e politicamente corretti della stampa e Christian deve assumersi ogni responsabilità, salvo vedersi subito riabilitato non appena il clamore mediatico trasforma l’evento in un insperato successo di pubblico. E ha superato con fatica anche l’imbarazzo per la performance stile Living Theater di un uomo-scimmia che, durante una cena elegante con sponsor e donatori, spinge troppo in là la provocazione antiperbenista gettando nel panico gli invitati sorpresi da una carica inattesa di disprezzo, di ira e di odio.

Ma il bambino insiste, e l’angustia per l’accaduto e la necessità di rimediare si fanno strada nella rattrappita sensibilità di Christian. Ma quando infine decide di andare a casa sua a porgergli le scuse richieste, il bambino non c’è più. La famiglia si è trasferita altrove, e nell’estrema atomizzazione della vita delle periferie dove ognuno è invisibile all’altro, nessuno è in grado di dare a Christian una traccia.

Non sappiamo quale tipo di uomo sarà Christian dopo quell’esperienza. Lo vediamo riprendere con le figlie la strada di casa accartocciato al volante. È la postura di un uomo sconfitto. La posticcia sicurezza del suo mondo è andata in frantumi. Ma oltre la barriera il cosiddetto «Altro» – feticcio verbale che da decenni ci riempie la bocca – non c’è, è introvabile.

Il mutismo di cui ci siamo nutriti per troppo tempo ha reso irreperibile ogni altro, anche quando il nostro sentire è stato finalmente smosso e l’ego messo da parte. Forse, nel consumarsi della sconfitta della sua apertura a un mondo ignoto, Christian qualcosa «ha portato a casa»: è diventato padrone del suo vuoto.

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