(O) Ma davvero occorre un’apologia del Padre Nostro?
(S) Certo che occorre, se si mettono anche i vescovi a strapazzarlo. Con la benedizione pontificia. C’era proprio bisogno di chiarire, arrivando a cambiare la preghiera più antica e necessaria, l’unica insegnataci da Gesù, che non è Dio a spingerci a fare il male, con quel “indurre in tentazione”, così equivoco da doverlo sostituire con “non abbandonarci alla tentazione”? E pensare che hanno studiato anni e poi ristudiato e poi aspettato ancora anni per rendere pubblico questo ‘grande’ cambiamento.
(C) Giusto! Poi arriva Francesco e urge per una decisione, anzi, di fatto decide, perché dopo la manifestazione della sua intenzione non varranno più né lentezza, né prudenza, né contrarietà. Ma io non obietto affatto al cambiamento di linguaggio, peraltro modesto. Anzi plaudo alla decisione di Francesco, che almeno ci spinge a una riflessione. Che Dio non sia responsabile o autore della tentazione è chiaro fin dal Vangelo, dalle Lettere di s. Paolo e di s. Giacomo. Quindi nessuna novità teologica, nulla per polemizzare nemmeno da parte dei più accaniti tradizionalisti: Sebastiano, mi sembra che esageri, questa volta, per puro spirito di contrarietà, mi diventi Bastian Contrari, altro che Conformi! Piuttosto, razzolando nel Web, ho trovato qua e là qualche approfondimento interessante. Prima di venire ad un approfondimento della ‘tentazione’, voglio darvi conto della primissima difficoltà di traduzione, che risale addirittura ai Padri della Chiesa. Noi infatti recitiamo tranquillamente “pane quotidiano” senza sapere che dobbiamo a san Gerolamo una traduzione che ad un linguista scrupoloso apparirebbe come una forzatura. “Il termine greco epiousion rimaneva, già per Origene, di dubbia interpretazione. Esso potrebbe essere tradotto letteralmente “supersostanziale” (“al di sopra della ousìa“, dell’essenza), ma anche più semplicemente potrebbe significare “quotidiano” (la razione che sta sopra il piatto di ogni giorno). Da questa ambiguità del testo greco originale derivano le differenti traduzioni della parola nelle diverse lingue moderne”. Non possiamo nemmeno immaginare quale parola aramaica abbia usato Gesù, ma mi pare ragionevole pensare che l’evangelista, al momento di scrivere in greco un testo che riteneva giustamente importantissimo, abbia cercato o addirittura coniato un termine molto particolare, specifico per un concetto che non aveva precedenti. Infatti questo termine non ricorre in nessun altro testo greco, al di fuori del Nuovo Testamento. La traduzione accettata da tutte le Chiese “quotidiano” sembra un po’ velare la genialità dell’evangelista che nell’inventare quel suo termine alludeva evidentemente alla soprannaturalità del pane eucaristico, ancor più necessario, ma quindi altrettanto quotidiano di quello materiale.
(O) È chiaro che pochissimi capirebbero un’espressione diversa da ‘quotidiano’, ma penso che d’ora in poi, nel pregare, mi ricorderò di questo nesso. E per la tentazione?
(C) Mi rifaccio brevemente all’autorità di s. Tommaso (Commento al Padre Nostro):
“Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:
1) che cos’è la tentazione,
2) come e da chi l’uomo viene tentato,
3) come viene liberato dalla tentazione.
Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Sta lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).
La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.
Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio.
Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4).
Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.
(O) In sintesi, s. Tommaso integra il concetto negativo di tentazione con quello di prova. Oggi diremmo anche ‘test di valutazione’. Se lo superi, sei promosso. Ma non potrebbe lasciarci un po’ oiù tranquilli?
(C) Ma questa domanda del Padre Nostro deve essere letta insieme alla successiva: “Ma liberaci dal male”. Superiamo l’apparenza di due momenti diversi: siccome il male non mi è estrinseco, ma fa parte della mia natura, l’aiuto di Dio mi serve dall’inizio della mia azione, perché è più facile prevenire il male che curarlo. Ascoltiamo ancora s. Tommaso:
“Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.
Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.
Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e l’Ecclesiastico aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Eccli 2,1).
Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1Cor 10,12).
Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.
Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).
Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.
(O) La tentazione fa parte della vita, quindi tutti gli aspetti della vita sono chiamati a contrastarla, non solo la grazia divina, che potrebbe apparire qualcosa di esterno, ma principalmente la carità, cioè il cuore e l’intelletto.
(C) Proprio così. Si sente la differenza rispetto alla mentalità contemporanea, magari influenzata dal pessimismo luterano e giansenista, che ritiene impossibile sfuggire al peccato e quindi moltiplica le leggi, annullando nello stesso tempo la dinamica del perdono.
(S) Certo, se Dio non esiste o comunque non ha a che fare con la vita e quindi la morale è ridotta al costume e questo è dedotto dalla volontà della maggioranza, è giusto pretendere che ci siano leggi che regolano ogni cosa e che siano fatte rispettare da tutti. Quindi è logico che non si parli nemmeno di tentazione, dal momento che abbiano sostituito il nostro criterio a quello di Dio, questo in un orizzonte ateo. In un orizzonte cristiano ci limitiamo ad interpretarlo. Ma mi domando se sia giusto. Edulcorando i comandamenti, la legge morale e anche semplicemente la disciplina ecclesiastica, non ci consegniamo inermi al potere del mondo?
(O) La grande tentazione, di cui nemmeno ci accorgiamo, è quella della superbia, la presunzione di creare l’uomo nuovo, perfettamente coerente con le leggi della realtà, attraverso lo sforzo di tutti, coordinato dall’unica realtà superiore da tutti riconosciuta: lo Stato. Si può anche chiamarla utopia. La sua forma più modesta è il moralismo rancoroso di cui abbiamo parlato la volta scorsa; se il vero potere ci sfugge e il sogno della società perfetta svanisce nel confronto con i reali imperialismi politici, economici, culturali, sociali e nella cronaca delittuosa di ogni giorno, la superbia rinasce nella forma del fariseismo: “io non sono come quelli là”, quelli che ci impongono le Tav o i metanodotti, i diserbanti o i concimi chimici, questa o quell’altra discriminazione o disuguaglianza. Ma in questo modo riduciamo il male a una non conformità, torniamo prigionieri della Legge. Non abbiamo forse sentito definire ‘comportamento inappropriato’ certi fatti che la nostra coscienza cristiana giudica peccati scandalosi?
(C) Come fare per non cadere nel formalismo conservatore né nel progressismo utopistico? Confesso di non avere una formula magica e di non voler nemmeno adagiarmi sulla comoda soluzione del ‘giusto mezzo’. Cerco solo di avere domande e di non dimenticarmi di quelle del Pater. Domande di aiuto e domande per avere risposte. La più importante è per la grazia di non accontentarsi di risposte parziali, che non sarebbero altro che l’idolatria squallida dei tempi moderni. Almeno quella antica, nel suo ingenuo politeismo, metteva all’inizio e alla fine di ogni desiderio e di ogni attività, di ogni parziale domanda umana, un nume protettore da cui dipendere, un simbolo ingenuo della poliformità e dell’inesauribilità del mistero dell’esistenza umana. Carità e intelletto per non cadere in tentazione non me li creo da me stesso, sono una grazia del Padre, che mi raggiungono attraverso la compagnia umana offertami dalla Chiesa.
(O) Onirio Desti (S) Sebastiano Conformi (C) Costante
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