Una serie di eventi recenti ricorda a tutti che il «neofascismo» è un problema serio e che come tale va esaminato, interpretato e affrontato.
Fino a che punto possiamo parlare di neofascismo, inteso come galassia di partiti e movimenti che intendono ricostruire, in un nuovo contesto, le strutture portanti del regime totalitario che ha retto l’Italia tra l’ottobre 1922 e l’aprile 1945? Gli schemi del passato sono inservibili, benché molti si ostinino ad usarli. L’Europa tra le due guerre è incomparabile con quella odierna. Usare la categoria metastorica del fascismo come una coperta troppo estesa è controproducente.
Benché Hitler o Mussolini rientrino ancora nel pantheon di alcuni attivisti, le estreme destre che infestano Europa e Stati Uniti non sono una riedizione né del nazifascismo né del neofascismo che abbiamo conosciuto, contrastato e sconfitto durante la Prima Repubblica. Di contro al senso comune, tutto è nuovo sotto il sole (in questo caso dovremmo rovesciare la metafora e parlare di una tenebra sempre più fitta). Non c’è un fascismo eterno che da Sardanapalo o Nerone giunge ai giorni nostri: il «fascismo» non è una categoria dello spirito, né è parte di un presunto DNA degli italiani.
La povertà del lessico corrente svela le difficoltà storiche in cui la democrazia liberale si trova oggi. Lo stesso vale per il «populismo», una coperta che ospita fenomeni tra loro diversissimi come Trump e Grillo, Putin e Maduro. Più estesa è una categoria e minore è la sua capacità esplicativa. Meno pertinente ma più utile è la denuncia del «trasformismo» in cui Gobetti vide l’essenza del fascismo come «autobiografia della nazione» e Carocci la prassi parlamentare che ha guastato politica, costumi e aspettative di riforma intellettuale e morale dell’Italia unita.
Questi argomenti non ridimensionano il pericolo costituito dalle destre radicali. Le difficoltà dell’analisi e del linguaggio davanti agli inediti della storia, ci segnalano che abbiamo superato senza difese la soglia critica di allarme. L’attenzione deve cadere sui nostri gesti non meno che sull’aggravarsi dei fatti, evidenti nel cambio di passo e nel mutamento di paradigma emersi con il voto di Ostia e l’episodio di Como. L’impotenza delle categorie descrittive e delle azioni di contrasto tradizionalmente impiegate si associa al salto di qualità intercorso nell’ultimo anno negli estremismi di destra. Le terapie classiche sono forse dovute ma insufficienti e blande. Parole e riti che si limitano a esorcizzare o stigmatizzare dei comportamenti non servono se non contrappongono una forza simbolica e rinnovati consensi. L’appello ai buoni sentimenti e alla democrazia non va lontano se i buoni sentimenti non operano e la democrazia è un guscio vuoto.
Possiamo pretendere che Forza Nuova, Casapound o la varesina Comunità Militante dei Dodici Raggi siano sciolte per manifesta violazione delle leggi Scelba e Mancino. Ma siamo sicuri di poter ridurre il pericolo con la sola applicazioni di misure di legge, che si tradurrebbero per lo più in lievi sanzioni a qualche esagitato che si è esibito nel saluto romano e in altre riesumazioni di macabri riti e slogan? Dubito dell’efficacia e della convenienza del ricorso alle leggi. Le commemorazioni partitiche e istituzionali suonano come retoriche alle orecchie dei giovani e dei molti adulti disamorati dalla politica. Se il contrasto non verrà dalla società in modo forte, ampio e convinto, se non troverà espressioni originali e confacenti, quello frapposto dalle leggi servirà a ben poco.
Venticinque anni fa il neofascismo fu «sdoganato» con misure e alleanze spregiudicate e incaute. Oggi assistiamo a manifestazioni e ascoltiamo parole ancora interdette dopo lo sdoganamento. Tre termometri giustificano l’allarme. I tabù sul razzismo e la messa al bando della violenza sono caduti; i peggiori pregiudizi antisemiti circolano liberamente; il rispetto dovuto alle persone, ai diritti dell’uomo, alle varie religioni e convinzioni filosofiche è bollato con l’infamante accusa di «buonismo».
Vi sono altri termometri. Nelle tante periferie che caratterizzano l’Italia, alla caduta dei freni inibitori è seguita una crescente ostentazione di ostilità agita e non solo verbale verso precisi gruppi: gli zingari, i migranti, i neri, le associazioni che salvano vite umane. Papa Francesco – un papa attento ai diritti, alla povertà, all’accoglienza, ai beni comuni e all’ambiente senza l’integralismo di chi lo ha preceduto –, è più popolare tra i non credenti che tra i credenti e gli atei devoti; il mondo cattolico è una barriera operosa e generosa, ma non tutti i credenti ne sono coinvolti. Molti cittadini si dichiarano pronti a sacrificare i diritti civili e le garanzie liberaldemocratiche che l’Europa ha costruito in circa tre secoli e mezzo pur di stroncare il terrorismo islamico, quando al contrario è l’esercizio attivo di quei diritti e di quelle garanzie a certificare a chi aprioristicamente la rifiuta come opera satanica degli infedeli, che la civiltà istituzionale e giuridica prodotta dalla cultura greco-romana prima ed europea poi è una scoperta universale proprio come lo sono il copernicanesimo, la legge della relatività ristretta o il fondamento della genetica nel DNA. Alcuni governanti, come Hollande e Minniti, hanno fatto anche qualche passo concreto verso questo sacrificio.
Per anni si è lasciato che la Resistenza fosse considerata monopolio comunista, cosa non vera nemmeno nei paesi conquistati manu militari dall’Armata Rossa. In Europa occidentale la Resistenza nacque per impulso di forze eterogenee che conversero in una coalizione retta da una piattaforma democratica. Tranne che in Grecia, i comunisti – benché stalinisti fino al midollo – accettarono questo ruolo sia dove erano influenti, come in Francia e in Italia, sia dove erano quasi irrilevanti. Questa equazione tra Resistenza e comunisti è diventata senso comune; e alcune scelte politiche dell’ANPI nazionale non hanno fatto che rafforzarla. Non contrastare con la dovuta inventiva questo appiattimento sarebbe un grave sbaglio politico. L’antifascismo stesso non ha senso se non è antitotalitario e non violento a 360°.
Esistono infine destre radicali che si proclamano antifasciste ma che tendono a minimizzare gli eventi perché si illudono di trarne vantaggio. Fu l’errore fatale di Giolitti, che peraltro non era uno spregiudicato radicale di destra come Salvini o Grillo.
Le destre radicali godono di humus che viene fecondato continuamente da elementi nuovi, ed esse sanno trasformare questo humus in un habitat molto propizio.
Mi limito ad enumerare: la povertà crescente e diffusa; le diseguaglianze sociali mai così grandi; il lavoro dipendente senza quasi più diritti e paghe che farebbero di Arpagone una persona generosa; l’ignoranza fobica dei problemi legati alle migrazioni; la crisi delle democrazie liberali e dell’Unione Europe; il ritorno di nazionalismi che a rigor di logica contrastano apertamente con la terribile esperienza planetaria di due guerre mondiali; il brutale declino qualitativo dei sistemi scolastici e formativi (l’Italia da Luigi Berlinguer a Fedeli passando per Moratti, Fioroni e Gelmini è la punta di diamante di questo collasso, anche se non è la sola); la virulenza del linguaggio e delle immagini che circolano nei social networks; il successo dei tanti agenti e imprenditori politici del razzismo, dell’odio e della violenza che cercano voti e ne traggono un ampio consenso.
Questi processi non sono stati contrastati a dovere con alternative percorribili e con inventiva politica. I partiti hanno dato una cattiva o mediocre prova di sé; i sindacati hanno fatto anche peggio nel loro arroccamento corporativo. La loro presa nella vita civile e culturale è ormai al lumicino. In tutta Europa manca una normale dialettica politica. Sono le destre a frequentare e a spacciare pesantemente ideologie vecchie e nuove, mentre le sinistre liberal e socialdemocratiche sono sì libere dalle ideologie ma restano inchiodate a idee vecchie e a valori che appaiono completamente deradicati dal mondo reale, nonostante le ingiustizie di cui questo mondo è pieno.
È il comune sentire che è cambiato in sintonia con un quadro sempre più deteriorato. Questo comune sentire prende indirizzi diversi, e costringe la politica a venire a patti perché manca la forza aggregante di un comune sentire alternativo, che sappia tradursi in comportamenti, azioni e pratiche capaci di far vivere in sé i richiami ideali, che invece restano esercizi avulsi, appelli didascalici, ostentazioni senza fascino.
Mancano anticorpi sociali, civili e culturali che operino nella convivenza ordinaria di ogni giorno. Una politica mediocre ha retroagito sui comportamenti civili correnti, in una sorta di contaminazione reciproca.
Siamo su un versante dove è bene sapere cosa rischiamo. Il pericolo maggiore non lo corre la democrazia istituzionale, ma un codice non scritto (di per sé non prescrivibile) di interazioni reciproche. Negli ultimi venti anni è tornata in auge la pratica del «capro espiatorio», la colpevolizzazione e la personificazione di un male pubblicamente additabile e trasformato in una pretesa di giustizia che si manifesta quasi come un’ordalia, un giudizio di Dio. Ognuno oggi sembra avere bisogno di un nemico per prendere le misure di se stesso.
Il capro espiatorio apparentemente ricompatta, unifica; in verità frantuma. È questa frantumazione, che si traduce in barriere sociali e ghettizzazioni invalicabili, in egoismi ottusi e colmi di veleni e in grandi solitudini individuali, il nucleo del problema.
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