(O) Visto che fai sempre più fatica a trovare argomenti o persone che meritino un’apologia, sia pure paradossale, posso darti un suggerimento? Prova con gli italiani in generale, questo popolo o, se preferisci, questa massa informe che l’ultimo rapporto Censis caratterizza come avvolti, se non dominati dal RANCORE.
(C) L’enfasi con cui per un paio di giorni ci dedichiamo a commentare il rapporto Censis, spesso giustamente affascinati da qualche riuscita metafora, per le quali era giustamente famoso il prof. De Rita, è sempre pari alla trascuratezza per cui evitiamo di leggere tutto il rapporto e alla velocità con cui dimentichiamo anche il poco che abbiamo letto. Aggiungo che non ho avuto nemmeno il tempo di leggerlo e mi pare, anche solo a giudicare dai comunicati stampa, che il contenuto complessivo sia ben più ricco e complesso. Ci sono molte italie (minuscole) diverse, quindi ancor più numerosi e diversi tipi di italiani.
(S) La media però è indicativa: ti fornisco solo qualche riga del comunicato stampa ufficiale del Censis: “Prevale la convinzione che sia difficile salire nella scala sociale: lo pensa l’87,3% degli italiani che sentono di appartenere al ceto popolare, l’83,5% del ceto medio, ma anche il 71,4% del ceto benestante. Al contrario, pensano che sia facile scivolare in basso nella scala sociale il 71,5% del ceto popolare, il 65,4% del ceto medio, ma anche il 62,1% delle persone più abbienti. In questo contesto, si fa strada l’avversione per i diversi, per chi potrebbe «accaparrarsi» fette di benessere: se il 47% degli italiani è favorevole ad aiutare rifugiati e profughi, ben il 45% è contrario, quota che sale al 53% tra gli operai e i lavoratori manuali, al 50% tra i disoccupati e addirittura al 64% tra le casalinghe. Tant’è vero che la reazione degli italiani in caso di matrimonio della figlia femmina con una persona di religione islamica è decisamente la più contraria”.
(C) Questi numeri giustificherebbero preoccupazione, ma non rancore. Rancore ‘è un sentimento dato da un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione subita, sia essa reale o immaginaria’, (definizione del dizionario del ‘Corriere’) ovvero ‘un sentimento di odio, sdegno, risentimento profondo, non manifestato apertamente, ma tenuto nascosto e quasi covato nell’animo.’ (Treccani). Osservando attentamente, le due definizioni, benché provenienti da fonti autorevolissime, non sono univoche, dovremmo chiedere al Censis di quale rancore stiamo parlando. Comunque a me pare più ricca quella del Corriere, che sottolinea il concetto di ingiustizia subita: quanti tra noi non pensano che almeno una parte della propria condizione non sia segnata dall’aver ricevuto meno di quello che si meritava? Colpa della sfortuna (la ‘deviazione’ maligna, il caso imprevisto del gol realizzato dal portiere avversario nella città delle streghe), della maestra cattiva che non ti comprendeva da bambino, dei genitori tradizionalisti e retrogradi, dello Stato, della Chiesa, della mafia, della politica e via. Io proverei ad aggiungere almeno un’altra caratteristica: l’incapacità di perdonare. Non tanto di dimenticare o di passare oltre, che sarebbe ancora una forma di opportunismo, penso piuttosto ad uno sguardo sulla realtà capace di leggerla oggettivamente, riducendo l’effetto distorcente delle nostre soggettive aspettative. Questo mi obbliga a dire fin d’ora che non mi ritengo immune dal rancore: il ricordo di qualche ingiustizia subita si associa più alla rabbia che al perdono. Lo so e posso solo cercare di evitare che questi sentimenti caratterizzino il mio giudizio su tutta la realtà.
(S) Sarebbe bellissimo che questo avvenisse grazie alla libertà di coscienza morale del singolo, ma occorre sempre l’aiuto della forza della società, delle istituzioni, della legge e delle punizioni che essa è in grado di infliggere. Senza Stato non c’è legge, senza legge non c’è società che possa sopravvivere a lungo all’invidia sociale, quindi vedete che la responsabilità massima ricade sulla politica. Cito anch’io dai comunicati ufficiali del Censis, un passo che descrive il drammatico limite della politica di questa legislatura e temo, altrettanto drammaticamente, della prossima: “Le riforme dell’apparato istituzionale per la scuola, il fisco, la sanità, la difesa interna e internazionale, le politiche attive per il lavoro, gli incentivi alle imprese, il rammendo delle grandi periferie urbane, fino alle riforme di livello costituzionale, sono rimaste prigioniere nel confronto di breve termine. Con l’inevitabile conseguenza che, non avendo sedi dove portare interessi, identità, istanze economiche e sociali, gli stessi soggetti della rappresentanza proseguono il loro arretramento lasciando agire il frastuono comunicativo di presenza dei leader”. Detto più semplicemente: i partiti si riducono alla capacità comunicativa dei loro capi. Il compito del capo è condurre alla vittoria, quindi deve, ripeto: deve, farlo con ogni mezzo. Non ha scelta. Oggi, come sempre. Prendete Trump: non ha creato lui il rancore sociale, lo ha sfruttato. In Europa non è diverso, la crisi economico lo ha acuito, la memoria storica dell’intero secolo scorso lo ha fatto diventare anche e soprattutto rancore politico, una mutazione genetica che sola spiega sia il ritorno di estremismi incredibili a destra, sia la frammentazione a sinistra. In Italia abbiamo una particolarità: il partito del rancore come tale (non c’è bisogno che ne faccia il nome) che invece, per accreditarsi come partito di governo, è costretto a fare qualche timido passo in senso opposto, non già nei confronti dei connazionali, quanto di altri Stati e delle Istituzioni, UE in particolare, indicate fino a poche settimane prima come perverse origini di tutti i mali. Le prossime elezioni saranno vinte da chi sarà capace di capitalizzare questo rancore. Non è detto che il vincitore sia uno solo, ciascuno potrebbe avere la sua vittoria, magari attraverso la sconfitta dell’avversario più vicino, di quello appunto che ci creato il maggior rancore, che ci ha inflitto il torto più bruciante, non necessariamente di quello idealmente più lontano.
(O) Ma questo è un disastro, non c’è rimedio?
(C) Mi hai chiesto una apologia dell’italiano? Provo con uno spunto, come mi chiedevi, paradossale. Propongo di tornare ad una normale, gestibile, invidia sociale, senza rancore. Quell’invidia sociale che ha diviso in due l’Italia nei primi trent’anni della Repubblica, ma che non è mai diventata rancore. È una condizione culturale che genera competizione, ma anche competitività, talvolta rabbia, ma non odio, difesa dei propri diritti ma non negazione di quelli altrui. Due generazioni fa, anche i più ricchi ostentavano moderazione e temperanza. Gianni Agnelli dichiarò una volta “il mio smoking (sartoria Caraceni) ha trent’anni”; oggi un suo erede intelligente, saggio e moderato come Lapo Elkann ritiene di poter intervenire nel dibattito politico con un giudizio sull’ex Presidente del Consiglio: “Vorrebbe essere Macron, invece è micron”.
(O) Un’altra forma di ‘frastuono comunicativo’. Giustamente il Censis afferma: “L’astioso impoverimento del linguaggio rivela non solo il rigetto del ceto dirigente, ma anche la richiesta di attenzione da parte di soggetti che si sentono esclusi dalla dialettica socio-politica”. Difficile evitare il populismo, arrivati a questo punto, l’attenzione diventa in un attimo adescamento corrivo.
(C) Lasciatimi ripetere la differenza abissale tra popolarismo e populismo, che viene resa evidente proprio dalle riflessioni odierne. Le varie espressioni del popolarismo di ieri, Democrazia Cristiana, Comunismo, socialismo, tenevano conto dell’invidia sociale e cercavano di ridurla; il populismo di oggi parte dal rancore, se ne approfitta e non teme di incrementarlo. Per questo motivo siamo arrivati alla frammentazione e all’impossibilità di alleanze politiche stabili. È evidente che un pezzettino del destino dell’Italia si gioca nelle prossime elezioni ed in particolare sarà nelle mani e nelle schede del ceto medio, la classe sociale che più rischia il proprio arretramento: se sceglierà il rancore avremo l’ingovernabilità come conseguenza; se troverà una onesta possibilità di difendere i propri interessi senza eccessi, sarà possibile ricostruire un tessuto di collaborazione politica e sociale.
(S) Non avrei mai pensato che si potesse descrivere un vizio capitale, l’invidia, come quasi una virtù.
(C) Certi vizi non sono altro che virtù impazzite, deviate, esagerazioni di tendenze e di istinti buoni. Non li passo in rassegna tutti, ma prendi per esempio la gola: non è un’esagerazione del desiderio di cose piacevoli al gusto o la superbia un eccesso di autostima? Così l’invidia ha superato il confine del giusto desiderio di emulazione e deve essere ricondotta nell’alveo di una accettabile competizione; quando poi travalica in rancore, ogni differenza diventa un torto ingiustamente subito e sembra autorizzare ogni possibile ritorsione, fino alla vendetta: mors tua, vita mea.
(O) Non hai fatto l’apologia degli Italiani, ma quella dell’invidia!
(C) Siccome invece io sono convinto che gli Italiani siano ancora un popolo e non una massa di rancorosi, disposti a sbranarsi gli uni gli altri, sono sicuro che si accorgeranno di quale danno è capace chi si affida al rancore come motore del consenso politico, ridimensioneranno questo nostro vizio nei limiti di una accettabile differenza di opinioni e di interessi e torneranno a cercare un possibile bene comune. E questa è la mia apologia.
(O) Onirio Desti (C) Costante (S) Sebastiano Conformi
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