(C) Oggi racconto una bella storia di cinquant’anni fa.
(O) Capito! Ho visto la foto sul giornale, l’anniversario della maturità dei ragazzi della sezione serale dell’Itis.
(S) Amarcord, un genere sorpassato, defunto con Fellini, manco tu fossi Proust. Nemmeno Berlusconi risale più indietro del ’94. Noi siamo giovani e vogliamo trattare temi giovani, roba da Macron o da Kurz, mica da sopravvissuti, tipo Castro o Mugabe.
(C) Ma è di giovani che voglio parlare, di quelli che vanno a lavorare in Germania e di quelli che rifiutano l’alternanza scuola-lavoro per non essere sfruttati dai padroni. E anche dei giovanissimi, dei bambini, meglio, quei bambini che Nicoletti di Radio24 chiama bimbo-minkia e distribuisce in 4 categorie, nessuna particolarmente meritevole. Anzi, partiamo proprio dalla trasmissione da lui condotta, ‘Melog’, di mercoledì 29 novembre e ci introduciamo con le sue precise parole:
“Oggi proviamo a valutare la bimbominkiaggine della gioventù italiana. In base alla vostra esperienza in quale tipologia di figliame italiano residuo vi imbattete più spesso?
Grado zero. Gli spartani. Zitti muti e obbedienti, rispondono ai comandi come cani addestrati.
Grado 1. Gli sdraiati. Passano ore davanti agli smartphone, entrano in modalità fastidiosa solo in assenza di connessione.
Grado 2. I Frantumatori. Richieste a oltranza con ricatti per stare buoni, sono capaci di bloccare un’intera fila al supermercato finché non gli comprate la cioccolata.
Grado 3. I Posseduti. Al ristorante urlano e mangiano con le mani, si impossessano del vostro smartphone, lanciano le polpette, si puliscono le mani sul vostro cappotto e ululando si fanno i selfie a cavallo del cane del vicino”.
Lo svolgimento della trasmissione sembra dar ragione al conduttore: nello spazio della mezzoretta si presentano diversi testimoni,un padre emigrato dalla Siria, severo e autoritario, un altro che vede senza reagire il progressivo declinare delle figlie verso il grado di ‘possedute’, il proprietario di bar che porta il bambino a vedere come lui lavora, un gelataio che quando tenta di moderare le maleducazioni dei bambini viene minacciato dai loro genitori, una persona che gestisce un supermercato e conferma l’indole prevalente dei ‘frantumatori’ con l’ovvia acquiescenza parentale.
(S) Ho ascoltato una parte della trasmissione e sono d’accordo con la tesi che ogni bimbominkia è figlio di bimbominkia e che questa catena degenerativa è cominciata negli anni sessanta. Da allora è iniziata una vera reazione a catena, fatta salva l’esigua categoria degli spartani che “rispondono ai comandi come cani addestrati” e che quindi non possono essere portati ad esempio, tutti gli altri sono a loro volta figli di genitori mai cresciuti. Poi possiamo incolpare anche la scuola, la religione o il laicismo, il potere, la società la televisione lo smartphone il dna i soldi la crisi il danno climatico le scie chimiche il glifosato il PM10 la minkiafritta: tutte scuse. Manca la cultura dell’educazione.
(O) Non sono del tutto d’accordo. È vero che il problema è l’educazione e che il primo livello è quello dei genitori, ma posso garantirvi che la mia lunga esperienza di amministratore di scuola materna che i casi di bambini così rovinati fin da piccoli sono molto rari, quasi mai tali da non poter essere ricondotti ad un comportamento ‘ragionevole’. Il fatto che in altri luoghi, in presenza dei genitori, si scatenino in comportamenti ben diversi, addirittura provocatori, lo abbiamo costatato tutti. La cultura dell’educazione c’è e in teoria è anche apprezzata. Ma troppi si arrendono al minimo accenno di fatica, diventando flaccidamente permissivi o inutilmente violenti (come le maestre di Vercelli, per esempio). Lo scoglio che non si riesce a superare ha un nome desueto: sacrificio.
(C) Quest’ultima parola mi riporta al tema che volevo trattare, la presunta indisponibilità degli studenti ad accettare i progetti di alternanza scuola – lavoro. Anni fa ho organizzato un breve esperimento, coinvolgendo gli studenti di un liceo nella vita pratica di un museo: non solo guardare o semplicemente accogliere e accompagnare i visitatori, ma essere informati delle varie tecniche artistiche e conservative e sperimentare embrionalmente la manualità necessaria. Didatticamente un vero successo, con un piccolo neo: rimasti senza guida per due ore a causa di un disguido con un insegnante, la creatività innata eruppe improvvisamente in una specie di gioco o finzione provocatoria, subito filmata e ‘sparata’ su Youtube.
Ecco il vero rischio di questa alternanza scuola-lavoro: non lo sfruttamento lavorativo, che anzi è un impegno non remunerato da parte del soggetto imprenditoriale che fa da tutore ai giovani, ma la difficoltà a prendere sul serio il lavoro. Altra cosa fu la storia di quella straordinaria generazione di studenti lavoratori, da operai diventati periti, geometri, ragionieri, senza dimenticare i corsi serali di Economia della Cattolica che hanno laureato migliaia di ragionieri. Né va sottovalutata la stagione delle ‘150 ore’ quelle sì volute e non osteggiate dai sindacati per dare un minimo di formazione culturale, quindi di coscienza dei propri diritti e delle relative responsabilità ad una numerosissima schiera di lavoratori precoci. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza una disponibilità individuale al sacrificio, ma a molti ha cambiato la vita e senza dubbio ha fatto un gran bene anche all’Italia.
(O) Anche senza che ci racconti la vita quotidiana di quei ragazzi…
(C) Non solo ragazzi, qualcuno aveva trent’anni e aveva famiglia.
(O) A maggior ragione ce la possiamo immaginare, vorrei far notare che il punto di partenza era l’inverso: si partiva dal lavoro e al lavoro si tornava, ma la scuola non era né una parentesi tra due momenti di lavoro né una specie di gioco di ruolo, di metafora della vita reale come rischia di essere un’alternanza non presa sul serio.
(C) Ma questo è il problema essenziale della scuola, da quando è un’istituzione formale e non più la bottega artigiana delle corporazioni medievali e rinascimentali, più ancora da quando un mestiere, con i relativi ‘segreti’ non si tramanda più di padre in figlio, tutt’altro. Sicuramente non è facile aiutare i giovani a crescere in un percorso umano integrale, quando l’insegnante è stato preparato solo ad insegnare una ben determinata materia, la ‘propria’, senza trovare nessun nesso con una capacità lavorativa o almeno relazionale e giudicando l’allievo sulla sola capacità di ‘ripetere’ i contenuti della lezione frontale.
Il senso dell’alternanza scuola-lavoro dovrebbe quindi diventare quello di riportare al giusto posto il rapporto tra domanda e risposta: la scuola ha la pretesa di insegnare prima tutte le possibili risposte, senza nemmeno conoscere le domande che il lavoro porrà davvero. A questo proposito uno dei grandi vantaggi delle scuole serali fu che spesso le materie tecniche erano insegnate da persone che a loro volta erano lavoratori, ingegneri o dirigenti che si prestavano più per passione che per lucro ad uno ‘straordinario’ che lo era veramente, per la capacità di collegare teoria e pratica, scuola e vita. Non mi resta che ringraziare anch’io gli allievi e i colleghi per quella esperienza di vita reale che fu per me davvero formativa e che ci fa ritrovare ancora, anno dopo anno, come veri amici. Questa esperienza, nata tanti anni fa ma che vedo continuare nell’indole di questa compagnia di settantenni, mi fa pensare che la situazione dell’educazione non sia così disperata come descritta dalla trasmissione di Radio24, che la serietà della vita non l’esito di un moralismo retrogrado e autoritario e che la migliore testimonianza di questa possibilità sia la sorprendente disponibilità dei giovani italiani, certificati dagli ultimi dati dell’ISTAT a trovare lavoro all’estero e non per disperazione ma per mettere meglio alla prova le proprie capacità ed aspirazioni.
(C) Costante (O) Onirio Desti (S) Sebastiano Conformi
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