C’è una foto del 1940 in cui si vede la biblioteca londinese di Holland House colpita dalle bombe. Il tetto è crollato al centro della sala, ma due pareti, a destra e a sinistra, sono rimaste in piedi, con gli scaffali ed i libri miracolosamente al loro posto. Tre uomini elegantemente vestiti, cappello in testa, stanno in piedi, tra le macerie, davanti agli scaffali; guardano i volumi o li sfogliano, ciascuno assorto nel suo impegno.
Appena l’ho vista – l’ho scoperta di recente – ho pensato ai miei studenti: se l’avessi conosciuta quando ancora insegnavo e gliel’avessi mostrata, sarei forse riuscita a scalfire il loro coriaceo rifiuto della lettura? Chissà se avrebbero capito che quegli uomini non erano lì perché indifferenti al disastro che li circondava, ma perché sapevano di poter trovare nei libri un motivo per continuare a vivere. Forse quell’immagine mi avrebbe aiutato a spiegare loro che la lettura ci consente di dialogare con gli scrittori anche dopo secoli, che ci permette di conoscere una parte di noi e il senso delle cose, che leggere è come intrecciare tra passato e presente una corda che può farci risalire dagli abissi in cui ci precipitano la stupidità e la malvagità umane.
Ne dubito. Mi sembra di vederli e di sentirli, i miei studenti di allora. Scanzonati e dissacranti (“Ma prof! Quei tre lì non sono normali, hanno bisogno di farsi visitare da uno bravo”) o pragmatici (“Secondo me stanno cercando un manuale di costruzioni per rimettere in piedi l’edificio”). Oggi probabilmente mi risponderebbero “Biblioteca? Libri? Prof, forse ai suoi tempi!” e ritornerebbero a chinarsi sullo smartphone. Una bella fatica indurli alla lettura. Ci avevo provato in tutti i modi: con l’imposizione, coi suggerimenti, con le blandizie, con le minacce, coinvolgendoli nella recitazione. Alla fine ero ritornata all’ancien régime scolastico: “Imparate a memoria questo passo, tra quindici giorni vi interrogo, vi do il voto e fa media”. C’era sempre qualcuno che protestava: “Non capisco a cosa serva”. “Te l’ho spiegato – rispondevo – se non capisci non importa. Tu ubbidisci, quando sarai grande capirai”. Poi ridevamo insieme, ma comunque lo facevano. Quasi tutti. Poi si appassionavano alla lettura? Assolutamente no.
Eppure…
Ce n’era uno che proprio non ne voleva sapere. Alla fine avevo accettato la sconfitta e mi ero rassegnata: pazienza, nessuno è perfetto, non si può sempre vincere. Alcuni anni dopo il diploma lo incontrai per strada. Allegro e sorridente come sempre, mi disse:”Prof, qualche giorno fa l’ho sognata”. “Era un incubo?” gli chiesi. “No. Ho sognato che imparavo a memoria la Divina Commedia”. “Allora era un incubo” ribadii con convinzione. “Ma no, prof, mi piaceva!” esclamò più stupito di me. Feci un passo indietro e lo apostrofai lanciandogli uno sguardo indagatore: “Se tornassi indietro, cosa faresti adesso?” “Eh sì, adesso la studierei” E vai!
Ne ricordo un altro che, pur essendo bravo, non amava i libri, neppure quelli di testo. Anche con lui, stessa scena. Incontro casuale. “Sa, prof, che ho pensato a lei?” “Come mai?” “Ho cominciato a leggere e mi piace” “Era ora! Sono molto contenta. E che cosa stai leggendo?” “Nietzsche” “Ah!” Ora fa il giornalista.
Il seme aveva germogliato. Forse avevano capito anche senza quella bellissima foto.
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