Ce l’ho sempre davanti agli occhi Giovanni, il Battezzatore. Da ragazzino, servivo la messa a un canonico del Duomo che celebrava la “messa dei siòri”, a mezzogiorno, nel tempio di Santa Corona sopra un altare su cui troneggiava una grande pala d’altare di Giovanni Bellini.
Un paesaggio ampio, riposato, terso, di cui riconoscevo la vetta arrotondata del monte Summano, faceva da sfondo al profilo di una città fortificata, sotto il cielo aranciato che bagnava l’azzurro delle montagne ultime e dell’aria. A sinistra, una spelonca ricoperta da fronde. Guardavo al centro Gesù, le braccia incrociate sul petto, che mi fissava con uno sguardo quasi ipnotico.
A destra, su un’altura di roccia, Giovanni, avvolto in pelli di cammello, la chioma prorompente, l’ispida barba incolta, il torso schernito dal digiuno, i piedi scalzi, versava sul capo del Messia l’acqua del Giordano.
La mia attenzione, però, era attirata da un pappagallo tutto rosseggiante che emergeva dalla roccia su cui si erigeva Giovanni. “Lassa stare el papagalo e varda Gesù” – mi intimava don Candido. A catechismo avevo imparato che Giovanni, il Precursore (ma che cosa voleva dire questa parola?) aveva vissuto e predicato nel deserto, cibandosi di cavallette e di miele selvatico, ma si era spostato in Giudea per battezzare nell’acqua del Giordano e, infatti, lì davanti a me si snodava tra i monti una valle solcata dal fiume.
Isaia aveva detto di Giovanni: “Voce di uno che grida nel deserto”. “Come fa Giovanni a gridare nel deserto, frutto dell’erosione del vento, dell’azione delle piogge rare ma violente, dell’escursione termica fra notte e giorno, se esso è disabitato?
Nessuno lo udirà”. – medito tra me e me – Forse il deserto di cui parla Isaia è il vuoto che abita nel mio cuore? O è il rifugio delle mie tribolazioni, delle mie mormorazioni, delle mie contestazioni, perfino delle mie ribellioni a Dio? O è il deserto che trovo anche nella mia città in cui ho scelto di vivere che, pur frenetica, fitta di rumori e di voci, è beffeggiata dall’assenza di autentiche relazioni, lacerata da dispute e da conflitti che impediscono la conoscenza di me stesso e degli altri con cui deve dialogare nel silenzio, nell’ascolto reciproco, nell’accoglienza piuttosto che nel rifiuto? O è il deserto che regna in casa quando rimbrotto i nipoti e loro fuggono, si rintanano in stanza e lì sfogano il loro dispiacere? O è il luogo segnato sulle carte geografiche che diventa spazio del potere violato nel suo silenzio dallo stordente passaggio di carri armati?
Mi rincuoro. Il deserto non è fatto per abitarci, ma per essere traversato, magari con altri compagni con cui avanzare, con cui combattere la tentazione di tornare indietro, con cui rischiare? No, il deserto è fatto di silenzio che trovavo da giovane sulle cime delle montagne dove tutto concorreva a pacificare l’animo. Il silenzio lo trovo quando faccio tacere i pensieri, le immagini, le ribellioni del mio cuore. Il silenzio lo trovo nella penombra di una chiesa o nel chiostro di un eremo.
“Preparate le vie del Signore” – continua Isaia – e Giovanni – folle di Dio contenuto nel tempo della terra e nello spazio della Giudea – grida nel deserto:” Convertitevi perché il Regno dei Cieli è vicino!”.
Congetturo nei miei pensieri: “Mentre il tempo si snoda, tu invecchi. Non sarebbe venuta l’ora di dare frutti abbondanti e non soltanto pronunciare delle dichiarazioni di principio? Perché non ti fai anche tu profeta in famiglia, nella società, nella città e non ti converti, non cambi rotta, non cambi mentalità recuperando in umanità. Perchè con la tua vita non aiuti il mondo ad essere più umano, più vivibile?”.
Aggiunge ancora Isaia: “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”. Il mio pensiero continua:” Devo agire, entrare nel numero di chi raddirizza i sentieri di Dio e accettare il suo invito. Dagli una mano! Ho io forse la vocazione di spianare la strada al Signore che viene? Non spetta a Lui togliere tutti gli ostacoli che gli impediscono di portarci la sua salvezza? Forse, al contrario, ho inventato io tanti inciampi, non ho scalato la rupe che porta alla casa del vecchietto che vive in solitudine per portargli un dono gratuito con la mia presenza, non ho colmato gli avvallamenti che mi dividono dall’amico, ho eretto muri con il mio orgoglio, invece che gettare ponti con un sorriso, non ho contribuito a togliere gli ostacoli – i tempi, le file, le burocrazie – a chi bussa al nostro paese…”
Isaia aveva preannunciato Giovanni, il Battezzatore, ma costui prepara la strada a colui che verrà dopo di lui – Il Salvatore – e al quale Giovanni non è degno di portargli i sandali. È aspro Giovanni con coloro che attendono il Messia: non propone loro cose piacevoli, non distribuisce illusioni, non fa profezie facili: grida che devono convertirsi!
Ecco il profeta moderno: colui che traduce lo sguardo di Dio nell’oggi e nello spazio, colui che, come dice un aforismo rabbinico, “fa sprizzare scintille divine dalle pietre”. Il nostro tempo ha bisogno di profeti che alzino chiara e possente la loro voce amplificata dalla loro vita. Ha bisogno di genitori che non si lascino incantare da visioni arbitrarie e che sappiano dire di no, di insegnanti che sposino l’ autorevolezza con la competenza, di medici che siano coscienti di praticare non un mestiere, ma una missione, di comunicatori che non mistifichino e falsifichino i fatti, di politici che non uccidano la parola sotto false promesse, di giovani che vivano il presente con lo sguardo rivolto ad un ampio orizzonte, ma con i piedi ben saldi nel passato tramandato dai loro nonni, di anziani che non vivacchino nella rassegnazione, di sacerdoti che proclamino con audacia il prezzo alto della Parola, senza timore di perdere qualche pecora del loro gregge a cui può diventare uggioso il loro coraggio, di uomini di legge che devono giudicare non un individuo, ma il cittadino con i suoi diritti e doveri…
Ecco il profeta d’oggi: chi non esita a mostrare la sua forza interiore straordinaria e potente, come quella di Giovanni che si lascerà uccidere per difendere la Verità, per proclamare l’annuncio del Salvatore e la sua giustizia.
Il mio pensiero continua: “Hai conosciuto uomini e donne cambiate dal Vangelo, hai letto di altri che, mossi dal cuore, dalla coscienza, dall’amore hanno incontrato Dio attraverso l’opera di altri uomini, sai come operano i ‘preti di strada’ e le migliaia di persone che li aiutano. Tutti uomini che mostrano il Vangelo vivendolo. Ti chiedono di fare altrettanto. Un tuo amico, prima di morire, ti ha lasciato un testamento: – Ho ricominciato a vivere grazie a te e ai tuoi amici. È lo stesso grido di Giovanni sul Giordano. Ripetilo anche tu. Riprovaci, snuda parole che sbaragliano tutto e tutti, uniforma il tuo esistere a chi sta per venire e a cui devi aprire la strada”.
“Vogliamo ancora profeti / a rompere le nuove catene / in questo infinito Egitto del mondo” – ha lasciato scritto padre Turoldo. L’ingranaggio di questi giorni sembra spingerci verso la morte dell’uomo. Nella solitudine che viviamo, basta un profeta per condurci a grandi altezze per guardare le città fortificate, come quella dipinta dal Giambellino: sono città chiuse, asserragliate, asservite al potente di turno e in cui l’uomo è soggiogato. Basterebbe praticare la Buona Novella per infrangere catene e stroncare le solitudini.
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