Il nonno di frontiera pensa di vivere una condizione nella quale, per rappresentarsi, non può fare altro che utilizzare strumenti provvisori e imperfetti, gli unici tuttavia che gli sembrano disponibili per far progredire la relazione con i nipoti.
Attraverso questi mezzi, il nonno di frontiera dà di sé una immagine parziale, spesso artefatta.
In pratica, rischia di mettere in atto dei comportamenti che, se visti da una parte terza, potrebbero far dubitare delle sue facoltà.
Insomma, il nonno di frontiera, arrancando dietro ai nipoti come un gregario è sovente sulla soglia della figura da babbeo.
Ora: a mio nipote piace molto farsi leggere i libri. A me piace tantissimo leggerglieli, soprattutto perché lui si accoccola contro di me, e questo mi dà una sensazione di intimità unica e profonda, ricoprendo di senso l’atto.
Quando siamo insieme, quindi, leggo libri molto volentieri; faccio il nonno di frontiera che, attraversata la frontiera, legge libri.
A lui piacciono soprattutto quelli che parlano di cose. Quindi: vulcani, treni, camion, razzi, astronavi. Cose così.
Il problema è che io, a leggere quei libri da ingegnere, mi stufo. Sento che non mi corrispondono.
Così, ogni sera dopo cena, si inizia una negoziazione con da una parte lui che propone bulldozer e scavatrici, e dall’altra io che chiedo storie.
Potrei far buon viso a cattiva sorte e stare zitto, ma non lo faccio.
Se da una parte i libri devono piacere a lui, non a me, e quindi sarebbe sensato seguire la sua inclinazione, dall’altra mi sembra che sia in gioco il modo attraverso il quale io definisco chi sono. Proiettando la cosa in prospettiva che ne esplicita i contenuti latenti, io mi penso come colui che rimane nella memoria dei nipoti come di quello che (tra l’altro) raccontava le storie, e mi seccherebbe, invece, essere ricordato come quello che le storie le faceva.
Dunque, passano i giorni e il tira e molla tra meccanica e avventure va avanti, lui da una parte che vuole una cosa, io dall’altra che ne chiedo una diversa.
Poi, una sera, il punto di svolta: ho scaricato nell’iPhone una copia PDF, probabilmente illegale, delle “Favole al telefono” di Gianni Rodari.
Il libro si regge su questo espediente narrativo: il signor Bianchi, rappresentante di commercio di Varese, in giro per l’Italia sei giorni su sette, ogni sera ad una certa ora chiama casa per raccontare una storia a sua figlia. Ne nascono racconti un po’ strampalati, a volte senza né capo né coda, ma soprattutto brevi, perché le telefonate intercomunali costavano.
Quindi, ogni sera, prima di andare a letto, ho letto a mio nipote un paio di “Favole al telefono”. Ed è così che sono arrivati agli “Uomini di burro”.
La favola racconta del colloquio tra un viaggiatore e il re del paese degli uomini di burro, i cui abitanti, per non squagliarsi, vivono in frigoriferi e con una borsa per il ghiaccio sulla testa. Il re fa lo sbruffone vantandosi di poter fermare il sole se il suo calore diventasse troppo, e il viaggiatore se ne va irridendolo. Fine.
Il successo degli “Uomini di burro” è stato tanto fulmineo e totale da essere, a mesi di distanza, ancora in cartellone con repliche quasi quotidiane, ormai possibili solo via FaceTime.
Quello che è successo, l’ho capito solo a posteriori, è stato uscire dalla opposizione di una volontà o l’altra, come se gli eventi fossero carichi di un’essenza invisibile (il senso delle cose), ma mettere al centro della attenzione l’oggetto in sé per ciò che è.
Il cambio di prospettiva ha fatto la differenza nella relazione e l’ha fatta progredire verso la soddisfazione reciproca.
Tutto questo mi ha fatto ripensare ad una storia narrata da Zhuāngzǐ, tra i fondatori del taoismo.
Il racconto è questo: “Se un barcaiolo sta attraversando un fiume e una barca vuota entra in collisione con la sua, anche se è un uomo collerico, non potrà adirarsi. Ma se nell’altra barca c’è qualcuno, urlerà e imprecherà perché stia alla larga. Se attraversando il mondo svuoti la tua barca, nessuno ti si opporrà, nessuno ti farà del male. Così è l’uomo perfetto: la sua barca è vuota”.
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