Il centenario di Caporetto ha riacceso interesse sulla prima guerra mondiale e sulle motivazioni che hanno portato a quella improvvisa ed inaspettata disfatta dell’esercito italiano.
Si è quindi riproposta anche la figura del conte LUIGI CADORNA (Pallanza 4.9.1859 – Bordighera 21.12.1928) ovvero il capo di Stato Maggiore del nostro esercito prima e durante la prima guerra mondiale fino al novembre del ’17.
Cadorna è stato un personaggio discusso, molto criticato subito durante e dopo il conflitto e poi in parte riabilitato dal fascismo, di nuovo oggetto di aspre critiche strategiche nel secondo dopoguerra e sicuramente oggetto di molti luoghi comuni.
Il principale è quello di non aver tenuto conto della vita dei propri uomini logorando l’esercito in una serie di inutili battaglie soprattutto sull’Isonzo che produssero infinite perdite di vite umane per conquistare spesso pochi palmi di terreno.
La realtà storica che emerge dopo un secolo ricco di bibliografia è sicuramente controversa, ma forse l’approccio non deve essere fatto “a posteriori” (tutti sono filosofi il giorno dopo una sconfitta) ma guardando alla realtà di tutti gli eserciti europei alla vigilia del primo conflitto mondiale, quando i generali uscivano – tranne che, in parte, quelli tedeschi – da accademie in cui si prendevano ad esempio ancora le strategie e le campagne napoleoniche con aspetti tattici e strategici di eserciti lenti e non ancora dotati di armi moderne.
In effetti, nei primissimi anni del secolo, due furono le grandi novità non subito comprese nella loro importanza: l’uso della mitragliatrice e dei reticolati e la nuova mobilità offerta dal veloce passaggio ai veicoli a motori rispetto alla trazione animale.
Se si aggiungono le scoperte chimiche dei diversi gas nervini e progressivamente le possibilità di osservazione – più ancora che di bombardamento – dell’aviazione ci si rende conto che concetti militari come quelli delle trincee e degli attacchi frontali cambiavano improvvisamente nella loro funzione.
Inoltre – prima del 1914 – le guerre duravano spesso solo alcuni giorni od alcuni mesi, con battaglie campali di movimento che definivano i conflitti e non erano programmate per periodi lunghi su posizioni bloccate tra forze sostanzialmente equivalenti in logoranti guerre di trincea in cui contava soprattutto la catena dei rifornimenti e dei servizi oltre alla sicurezza delle retrovie.
Cadorna apparteneva quindi ad una “scuola” di concezioni militari e strategiche diverse da come si sviluppò poi la guerra, così come i suoi colleghi generali che infatti si bloccarono reciprocamente sulla Marna, in Francia, come sul fronte orientale.
Inoltre Cadorna, anche per educazione psicologica e tradizione famigliare, diffidava apertamente del mondo politico romano, aveva disprezzo per le idee socialiste che pur professavano milioni di suoi soldati, credeva in una linea di comando verticistica e verticale vantandosi di non conoscere spesso neppure i suoi generali se non fossero almeno di brigata.
“Un uomo solo al comando” e quindi pochi rapporti e nessuna cordialità con i subalterni e i consiglieri, scarsa attenzione all’intelligence, rapporti freddi quando non addirittura divergenti con il governo centrale (da cui era apertamente solo sopportato) e staticità nelle visioni strategiche. Un uomo che rifuggiva dai rapporti umani e che non dava confidenza, che non amava la spettacolarità vivendo in assoluta frugalità. Un personaggio che aveva una sua profonda religiosità interiore ed era anche molto vicino al Re (insieme parlavano spesso il dialetto piemontese) e quindi fervente monarchico, mentre disprezzava il mondo politico romano.
Ciò premesso, la scelta di sacrificare centinaia di migliaia di uomini sul Carso oggi ci appare assurda, ma approfondendo i documenti nemici si può constatare che effettivamente gli austriaci avevano il vuoto dietro le linee e forse una “spallata decisiva” (che però non avvenne mai, data anche la configurazione dei luoghi) avrebbe forse capovolto velocemente l’esito del conflitto.
Dobbiamo ricordare che l’impero Austro-ungarico era alla fine, i popoli che lo componevano reclamavano l’indipendenza, la volontà militare scarsa e forse la carta migliore – con il senno di poi – sarebbe stato continuare ad astenersi dal conflitto (l’Austria era già disposta a concedere una vasta autonomia al Trentino) senza “tradire” la Santa Alleanza come invece avvenne.
Anche perché nel 1915, dopo un anno di guerra, era evidente che difendersi era diventato ovunque più facile che attaccare, si pensi a tedeschi e francesi che si sacrificarono per quattro anni con milioni vittime su un fronte sostanzialmente immobile.
A complicare le cose ricordiamo che l’Italia non poteva fare una guerra difensiva visti i confini del 1866 ed attaccare era impossibile in Trentino per l’esistenza dell’arco alpino e quindi che il comando italiano doveva forzatamente schierare il suo maggior sforzo verso Trieste, esattamente dove se lo aspettavano gli austriaci.
In una guerra di posizione e logoramento i soldati soffrono ed infatti Cadorna temeva più di tutto le idee disfattiste e “sovversive” senza rendersi conto delle condizioni obiettive vissute nelle trincee e nella disperazione delle truppe che però, nel complesso, furono molto migliori di quanto si pensi cementando nella guerra – e per la prima volta – il battesimo di una unità nazionale che pur sulla carta c’era già da mezzo secolo.
Il crollo di Caporetto nacque quindi soprattutto da una sottovalutazione degli indizi che facevano presagire una forte presenza tedesca a rinforzo degli austriaci (disperati più di noi), che avevano liberato truppe ad est dopo il crollo della Russia.
Non solo, gli ordini era che non si doveva contrattaccare senza decisioni dall’alto né usare massicciamente l’artiglieria senza il via libera degli alti comandi e quando i genieri austriaci tagliarono le linee telefoniche (la radio non c’era ancora…) i nostri cannoni rimasero muti perché non arrivarono gli ordini.
Il vero “colpevole” di Caporetto fu soprattutto il generale Badoglio, responsabile del settore, che non intervenne subito a bloccare l’avanzata nemica (eppure fu lesto poi a “riabilitarsi” ed addirittura a tornare in auge, si dice anche per la sua alta posizione massonica) ma anche l’assenza di un piano di ripiegamento per un esercito che aveva mantenuto una connotazione ed uno schieramento “offensivo” e non “difensivo” nonostante che circa 10 giorni prima della battaglia Cadorna avesse emesso ordini in tal senso al generale Capello, responsabile dell’armata schierata nella piana di Plezzo e intorno a Caporetto.
Gli austriaci e soprattutto le truppe alpine tedesche giocarono insomma quello che nel calcio è un contropiede veloce contro una squadra tutta esposta in avanti, tanto che l’allora capitano Rommel si spinse in avanti senza alcuna copertura, in una autonomia di comando impensabile nel regio esercito italiano, prendendo alle spalle brigate e divisioni con pochissime truppe, ma giocando sulla velocità e la sorpresa.
Annientati con il gas i reparti italiani più avanzati gli austro-tedeschi avanzarono per ore quasi indisturbati godendo della pioggia e della fitta nebbia che gravava in quei giorni tanto che Badoglio seppe dell’attacco, iniziato la notte precedente, solo a mezzogiorno del 24 ottobre e Cadorna addirittura solo alle 22 dello stesso giorno quando ormai centinaia di migliaia di soldati italiani erano stati aggirati dall’offensiva e presi prigionieri.
Ne uscì il disastro che sappiamo eppure, paradossalmente, il miglior successo del comandante in capo fu proprio la linea difensiva approntata sul Piave e non sul Tagliamento (come in molti premevano in un primo tempo) che fu sufficientemente difesa e resse nei mesi successivi perché – ricordiamocelo – Cadorna continuò nel suo incarico anche dopo Caporetto fino a quando, il 9 novembre del ’17, fu costretto a dimettersi per le pressioni alleate a fronte ormai stabilizzato, non per diretta scelta italiana.
Cadorna commise anche un altro grave errore di valutazione accusando le truppe di ammutinamento, diserzione e vigliaccheria, vittime di idee sovversive e della relativa propaganda “disfattista” mentre invece tutto prova che ciò non avvenne e che questo convincimento del generale fosse del tutto sovrastimato.
Anche le famose fucilazioni per diserzione furono molto meno di quanto si pensi e i tribunali militari funzionarono di fatto solo per pochi giorni, poi il ritorno in linea fu l’imperativo per tutti.
Subito dopo Caporetto, infatti, gli italiani si difesero bene, persero (anzi, abbandonarono volontariamente) un vasto territorio ma – dopo i primi giorni di assoluto sbandamento, soprattutto perché rimasti senza ordini – i reparti ripiegarono sostanzialmente in buon ordine attestandosi sul Piave dove dimostrarono di avere ancora la volontà di combattere pur avendo perso buona parte dei vettovagliamenti e delle artiglierie rimaste in mano austriaca.
Un altro elemento importante per capire la personalità di Luigi Cadorna è ricordare la sua famiglia di provenienza, borghesi di recente nobiltà.
I Cadorna erano originari di Pallanza e del milanese, borghesi agiati ma non nobili e che solo nella metà dell’800 furono insigniti di riconoscimenti nobiliari minori.
Una famiglia con proprietà immobiliari nella zona di Angera e Besozzo ma dalle rendite limitate e che – pur con ristrettezze economiche – si distinse nell’800 con numerosi personaggi di spicco nell’esercito e nella politica piemontese pur rimanendo “di provincia” e quindi caratterizzati da una forte connotazione cattolica e conservatrice, poco partecipe ai maneggi della corte subalpina.
Il padre di Luigi – il generale Raffale Cadorna (1815-1897) – è noto per aver comandato i reparti italiani alla presa di Roma (20 settembre 1870) ma, dopo aver valorosamente partecipato alla seconda guerra di indipendenza, negli anni precedenti a Porta Pia si era distinto soprattutto per una spietata lotta al brigantaggio nelle regioni meridionali e nella repressione delle proteste del 1869 contro l’imposizione della tassa sul macinato. Raffaele Cadorna fu successivamente eletto deputato e infine nominato senatore del regno.
Zio di Luigi Cadorna era invece Carlo Cadorna (1809-1891), deputato a Torino per sei legislature e poi presidente del parlamento subalpino nel 1857, già ministro dell’istruzione del regno sabaudo con Cavour e poi prefetto di Torino nel 1864.
Fu anche ministro degli interni del neonato regno d’Italia nel 1868 e successivamente nominato ambasciatore italiano a Londra.
Figlio, invece, di Luigi Cadorna fu il generale Raffaele Cadorna ( Pallanza 12.9.1889 – Verbania 20.12.1973) che partecipò alla guerra di Libia e alla prima guerra mondiale seguendo poi una brillante carriera militare fino ad essere nominato generale nel 1935. Contrario alla guerra d’Etiopia fu emarginato dal fascismo e i giorni successivi all’armistizio del 1943 lo trovarono a Roma a comandare la divisione Ariete che si oppose ai tedeschi nei combattimenti alle mura di porta San Paolo.
Raffaele Cadorna partecipò poi attivamente alla Resistenza comandando il Corpo Volontari della Libertà (di ispirazione cattolica) e da Milano – dove presiedeva il CNL – proclamò nell’aprile 1945 l’insurrezione generale.
Raffaele fu l’ultimo comandante di stato maggiore del regio esercito subito dopo la fine della guerra, nel 1945, e successivamente venne eletto senatore per tre mandati nella Democrazia Cristiana dal 1948 al 1963.
Oggi le spoglie di Luigi Cadorna – che, ritiratosi dal servizio, fu poi nominato Maresciallo d’Italia nel 1924 e morì a Bordighera il 21 dicembre 1928 – riposano in un vistoso e massiccio monumento di Marcello Piacentini sul lungolago di Verbania Pallanza, circondato da 12 grandi statue che rappresentano le diverse forze armate e fu inaugurato nel maggio del 1932 alla presenza di Amedeo di Savoia, duca d’Aosta.
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