Il fronte del fuoco è durato più di una settimana. Due Canadair hanno (quasi) sempre fatto la spola dal lago per approvvigionarsi di acqua e passare poi in volo radente sopra Casciago e Masnago fino alle pendici del Campo dei Fiori dove divampavano gli incendi e dove si estendono anche la via sacra delle Cappelle e il Sacro Monte: punti di riferimento e simboli di questa parte della nostra terra prealpina.
La mattina di Ognissanti il rombo degli aerei e il puzzo di legna bruciata e il fumo acre che prendeva la gola hanno cominciato a diradarsi. E pure è sparita la cenere che per diversi giorni cadeva dal cielo nei giardini e nelle strade. Ma – anche a leggere i commenti della stampa locale – non si potrà diradare sulla nostra montagna, almeno per diverse settimane, il lavoro dei volontari della protezione civile e dei vigili del fuoco, cui va l’imperituro ringraziamento dei varesini. Perché – come è noto a tutti – il fuoco cova sotto la cenere. Se non verranno “smassati”, così si dice in gergo, e depositi di fogliame e di sterpaglie bruciati basterebbe un alito di vento perché tutto possa ricominciare daccapo.
Che si ricordi, a memoria, questo è stato uno degli incendi più devastanti che hanno colpito il Campo dei Fiori, su due versanti, quello di Nordest, cioè verso la frazione di Rasa, e quello di Sudovest, verso il Poggio di Casciago. Con focolai anche sulla cima e, sempre a Ovest, sulla cresta di Barasso, Luvinate e Comerio. E poi anche in montagne vicine. Ma – ancora a memoria, almeno così si è letto sui giornali – erano novant’anni che non si registrava una stagione tanto siccitosa: la terra sotto il fogliame dura e secca come una pelle di tamburo. Fogliame e sterpaglie erano, e sono stati, inneschi naturali, solo sventati dalle “consuete precipitazioni” – come puntualmente poi registratosi –, tipiche nel Varesotto in questo periodo autunnale e ormai quasi invernale.
Gli incendi non hanno riguardato soltanto il Varesotto, quindi la sua montagna, come s’è detto, il Campo dei Fiori, dove si erge un monumento dello stile liberty: il Grand Hotel costruito dall’architetto Giuseppe Sommaruga, da anni ormai ridotto a lugubre edificio “portantenne” per radio e altri strumenti di comunicazione. Ma interessavano un molto più vasto fronte di fuoco che si estendeva da Tremosine sul Garda fino ai confini con la Francia, a Mompantero in Val di Susa, a Sparone nella Valle dell’Orco, a Bussoleno; e Cantalupa e al Cuneese, a Demonte in valle Stura. Passando per le province di Sondrio (la Forcola) e di Como (Tavernerio). Insomma, un disastro ecologico e ambientale che, a quanto risulta, per la prima volta ha toccato una così vasta area prealpina lombarda e piemontese. Dopo che, per anni, gli incendi sono stati quasi una costante del Sud del Paese e, più spesso nei periodi estivi che autunnali o quasi invernali.
A questo punto è parsa a tutti inevitabile e doverosa la ricerca di presunti piromani, ammesso e non concesso che la natura degli incendi sia stata dolosa e quasi fine a sé stessa e non – come forse più probabile – solo colposa. Sui social, in questi giorni, è stato un florilegio di letture sull’amore incondizionato per la montagna, patrimonio del verde e del cuore, e sul disprezzo nei confronti degli autori degli incendi, che di sicuro ci sono stati. Il giorno in cui sui giornali sono apparse notizie – tutte da verificare e da prendere con le pinze, anche da parte delle cosiddette autorità costituite – circa il ritrovamento di inneschi, l’odio e le accuse (non provate) sono divenuti irrefrenabili.
Ma si è letta anche qualche dichiarazione opportuna e di buon senso. In particolare da parte del presidente della regione Piemonte, Sergio Chiamparino, insieme con la Lombardia la più colpita dalla devastazione degli incendi. Egli ha rimarcato sul fatto che, da decenni ormai, nei boschi delle nostre vallate e montagne prealpine non si fa più manutenzione. Una volta i contadini facevano a gara per procacciarsi il fogliame da utilizzare come lettiere nelle stalle. Oggi viene lasciato a seccare o a marcire. Nessuno provvede più a ripulire il sottobosco dai rovi, dalle sterpaglie, dalle piante cadute e seccate.
In un’eventuale abbondante precipitazione, che potrà seguire, agli incendi appena messi sotto controllo con tanta sofferenza e sacrifici, succederà il pericolo di inondazioni e frane e smottamenti, dato che il terreno rinsecchito e impermeabile non sarà in grado di assorbire l’acqua caduta dal cielo: e ormai, da diverso tempo, non si parla più di pioggia ma di “bombe d’acqua”.
Sulle cause degli incendi, tra le tanti ipotesi, alcune anche assurde in verità, si è fatta quella di malavitosi cacciatori che, come loro presunta abitudine quasi annuale, avrebbero provocato piccoli incendi per stanare la selvaggina e aspettarla poi al varco, fuori delle riserve. Stavolta i “piccoli incendi” sarebbero sfuggiti loro di mano causando i disastri. La siccità del terreno e il forte vento di alcuni giorni avrebbero poi fatto il resto.
È un’ipotesi, anche questa, su cui non potranno non lavorare i carabinieri-forestali. Ma riesce difficile pensare, vista la vastità del fronte di fuoco – dalla provincia di Brescia e dal lago di Garda fino ai confini con la Francia –, immaginare l’opera dissennata di una consorteria di cacciatori. La frequentazione dei boschi da parte di chicchessia, persona attenta o distratta e anche, è stato rilevato da qualcuno, l’ “appoggio” di marmitte roventi delle auto sul fogliame avrebbero potuto diventare una prima causa di innesco. E poi l’assenza – sul territorio nazionale – di Canadair alcuni dei quali noleggiati in Croazia… Colpa di uno sciagurato governo che ha inopinatamente deciso l’accorpamento delle guardie forestali con i carabinieri.
Il fatto incontrovertibile è che la natura è come un essere vivente. Si vendica e risponde alle offese o alle disgraziate complicità dell’uomo. Alla sua incuria, alle sue trascuratezze, ai suoi cavilli sulle mutazioni climatiche, alle sue sterili polemiche. Non discute, la natura, parla e agisce. È da sempre così. E non è certo la natura a dover cambiare atteggiamento dinanzi al mondo.
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