Accoglieva tutti, anche gli atei o di credo diverso, se non ostile, come i mussulmani, “con un’unica precauzione – diceva – che non abbiano armi, droghe o altre cose incompatibili con la vita di comunità”. Era questa la stella polare dell’accoglienza che guidava Ettore Boschini, mantovano di Rivabella, classe 1928, meglio conosciuto a Milano – e non solo – come Fratel Ettore. A tredici anni dalla sua morte – 20 agosto 2004 – si è tornati a parlare di lui perché, due settimane fa, il nuovo Arcivescovo di Milano Mario Delpini ha confermato l’apertura del processo di beatificazione avviato dal suo predecessore Angelo Scola. Se vogliamo una notizia attesa, ma che riaccende la luce su un personaggio straordinario della metropoli lombarda e di tutta la Diocesi ambrosiana.
Con un lavoro instancabile, sorretto da una fede evangelica, Fratel Ettore è stato un protagonista simbolo della Milano religiosa e solidale a partire dal 1976 e lungo tutti gli anni ottanta e novanta. Nel grande sottoscala a due volte dello scalo milanese di via Sammartini 112 -114, sotto i binari della Stazione Centrale, aveva costruito nel tempo un avamposto di accoglienza e solidarietà, la sua cattedrale. In quel grande antro rischiarato da luci gialle aveva allestito cucine che garantivano la distribuzione quotidiana di un pasto serale e un centinaio di letti per gli emarginati, gli sconfitti, i malati senza assistenza, i profughi che allora arrivavano soprattutto dall’Est europeo. A sera inoltrata prima di accomiatarsi dai suoi ospiti si inginocchiava e pregava ad alta voce. Molta di quella umanità dolente rispondeva. Anche in campo cattolico qualcuno guardava con qualche riserva a quel Padre camilliano venuto da Venezia dove nel 1973 gli era stato assegnato il premio della Bontà, istituito subito dopo la morte di Giovanni XXIII e a lui intitolato. Altri non esitavano a definirlo un “oltranzista della fede” o addirittura “folle di Dio”, quasi una presa di distanza dalla sua solidarietà irruente, scomoda eppure delicata.
Da via Sammartini mi guidò nei due altri avamposti del suo impegno di carità: la casa di Betania a Seveso e il rifugio di Affori. A casa Betania, dedicata al culto della Madonna, sorta negli anni terribili del dopo diossina, accoglieva donne abbandonate, bambini soli, malati di mente, persone condannate da malattie irreversibili. Ad Affori fu il primo nella ricca Milano ad accogliere gli emarginati malati di Aids, inesorabilmente consumati dal virus cui la scienza allora non sapeva porre rimedio.
Diceva con disarmante semplicità che il suo unico azionista di riferimento era la Provvidenza. “Mi raccomando – esortava vigoroso – sempre con la p maiuscola bisogna scriverla..” E a ben guardare, in forme anonime e spesso misteriose, pareva alimentare le sue iniziative che, a un giudizio strettamente razionale, sembravano invece degli azzardi economici. Come del resto poteva risultare incomprensibile e spiazzante il suo attraversare Milano su un’auto scassata, con una statua della Vergine fissata al tetto mentre un registratore diffondeva canti e preghiere.
Fu anche grazie al sostegno vigile e costante del Cardinale Martini che Fratel Ettore, con tanti generosi volontari, riuscì a costruire luoghi di solidarietà solidi e al tempo stesso in qualche modo profetici dei tempi che si andavano profilando nel mondo, in particolare nei rapporti tra il Nord e il Sud.
Nel congedarmi disse: “Finché avrò vita marcerò con i poveri. Gesù ha scelto un modo di vivere da escluso, da emarginato, da ultimo”.
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