“In una comunità non ci sono ruoli, ci sono persone; non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi”: mentre Papa Francesco pronunciava queste parole, mi guardavo attorno. C’erano cardinali, vescovi, presbiteri, laici politici e esperti del processo d’integrazione europea, donne e uomini, giovani e anziani provenienti da tante chiese locali della Unione Europea. Erano stati inviati dalle conferenze episcopali dei loro paesi o rappresentavano movimenti ed associazioni laicali ed erano stati convocati dalla COM.E.CE. (Commissione degli Episcopati della Comunità Europea – così si chiama ancora oggi, sebbene a Maastricht abbia mutato il nome in Unione Europea!) per dialogare sul futuro dell’Europa.
L’assemblea che aveva davanti Papa Francesco era la Chiesa del vecchio continente. Si sa che i vescovi di antiche e prestigiose diocesi europee sono rammaricati perché Papa Francesco non accetta volentieri il loro invito di recarsi in Europa a confermare nella fede i suoi figli e fratelli. Francesco preferisce recarsi nelle periferie esistenziali. Ma l’Europa gli sta a cuore, molto a cuore. Da qui il suo pensiero di convocare a Roma, sulla tomba di Pietro, e vicino alla sua residenza, l’aula del Sinodo, una folta rappresentanza delle chiese europee. I delegati hanno ascoltato per due giorni la parola di sicuri fratelli, si sono riuniti in gruppi di studio per discutere, approfondire, confrontarsi, proporre, dibattere temi che stanno a cuore di tutta la Chiesa.
Sabato pomeriggio, papa Francesco ha preso la parola. Negli ultimi tre anni Papa Francesco per la quinta volta parlava agli europei.
Se a Strasburgo, davanti al Parlamento Europeo, nel novembre 2014, aveva analizzato le crisi dell’Europa d’oggi “stanca, invecchiata, nonna non più fertile e vivace” e aveva indicato prospettive d’impegno politico per combattere la cultura dello “scarto” o del consumismo esagerato, se aveva messo in guardia contro l’assolutizzazione della tecnica, contro i pericoli che minacciano il creato e aveva chiesto agli eurodeputati il loro impegno per custodire la democrazia, la famiglia, l’educazione, ai suoi fratelli nella fede non parla di radici cristiane, ma dei loro frutti. Le radici rimandano al seme che oggi ha un tronco radicato nella realtà, delle foglie che catturano ossigeno dall’aria d’oggi perché l’albero non abbia a avvizzire e faccia produrre buoni frutti: da ciò si dimostrerà l’ impegno tra Chiesa ed istituzioni.
Francesco cita Benedetto che con l’aratro e il Libro ha evangelizzato l’Europa e promosso, con l’opera dei suoi monaci, l’integralità dell’uomo non più solo cittadino, né militare, né schiavo, ma fatto a immagine e somiglianza di Dio e, pertanto, persona che si realizza nella vita di relazione con l’altro e con il Trascendente. La persona umana – e il mio pensiero corre a Jacques Maritain e a Emmanuel Mounier – è “il” valore, “il” tutto, ciò che più conta. I cristiani possono ricordare all’Europa d’oggi “che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone, che non ci sono voti, ma i cittadini, che non ci sono le quote, ma i migranti, che non ci sono gli indicatori economici, ma i lavoratori, che non ci sono le soglie di povertà, ma i poveri”
Ma la persona acquista valore solo se è inserita in una comunità. Papa Francesco rende omaggio ai padri fondatori che, nel 1950, scelsero tale parola per identificare il nuovo soggetto politico che si stava realizzando. Rievoca che alla base di questa Comunità ci sono i valori della solidarietà, vero antidoto contro i populismi, perdutosi nella frammentazione di piccoli gruppi d’interesse talvolta prettamente economici e la pace che, nonostante due guerre mondiali e atroci violenze di popoli, è ancora oggi un bene fragile perchè assediato da logiche localistiche o nazionalistiche. Ricorda Caporetto come l’apice di una guerra di logoramento. Per creare una cultura di pace Francesco invita a riscoprire il valore fondamentale della famiglia come unione armonica delle differenze e la partecipazione alla vita della comunità civile, dalla città allo stato, luoghi dove ognuno “scopre il suo volto e comprende la sua identità”.
Se nel maggio 2015, in occasione della consegna del premio “Carlo Magno conferitogli dalla città di Aquisgrana, Papa Francesco segnalava la necessità d’integrare e di saper generare un nuovo umanesimo, nell’ultimo suo discorso davanti alle chiese d’Europa, egli le invita al dialogo, all’incontro. Esorta i cristiani a trasformare la politica da luogo “di scontro fra forze contrastanti” a momento di intesa come massimo servizio al bene pubblico. Coscienti di tale valore, i cristiani impegnati in politica devono essere coerenti tra quello che dicono e quello che fanno, oltre che competenti perché “la politica esige studio, preparazione ed esperienza”.
Se il 24 marzo scorso, ricorrendo i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma, ricevendo i capi di Stato e di governo, Papa Francesco denunciava la paura e lo smarrimento di fronte a nuovi scenari mondiali imprevedibili e invitava i dirigenti nazionali “a discernere le strade della speranza, a identificare i percorsi concreti per far sì che i passi fin qui compiuti non abbiano a disperdersi, ma siano pegno di un cammino lungo e fruttuoso”, ai cristiani d’Europa, papa Francesco lancia la sfida di saper “includere” valorizzando le differenze dei migranti, dei profughi e dei rifugiati i quali, più che un peso, possono diventare una risorsa, tenendo presente che l’integrazione deve coniugarsi con la capacità di accogliere con cuore aperto e con la possibilità di offrire un’ospitalità dignitosa e regolata.
È stato un discorso a tutto campo quello di Francesco. Le crisi che si configurano in Europa hanno bisogno di cristiani audaci che le sappiano affrontare con fiducia e speranza. I vescovi, scelti dallo Spirito Santo, e i parlamentari, eletti dai cittadini, hanno la responsabilità – ciascuno nel proprio ambito – di cercare e di trovare soluzioni comuni senza trasformare le difficoltà in pretesti, i problemi in alibi, i conflitti in vere e proprie guerre.
C’è un filo rosso che unisce tutti e cinque i discorsi di Francesco all’Europa: la salvezza dell’uomo. Non si appella, Francesco, alle radici cristiane e giudaiche, che pur non si possono negare, non lancia anatemi contro quei politici che hanno votato leggi che contrastano col dettato evangelico, non condanna la morale che cerca una sua fondazione autonoma rispetto a qualsiasi riferimento al Trascendente, non chiede il soccorso dei potenti per difendere la fede, né tanto meno pensa ad una Europa carolingia quando l’alleanza tra trono e altare ha fatto trarre alla cristianità benefici anche economici, non castiga la politica che elabora un diritto fondato su base non più religiosa, ma razionale. Francesco chiede che si salvi l’uomo, la sua dignità, l’uguaglianza fra gli esseri umani. Invita, propone, offre la collaborazione con le istituzioni europee perché si contrasti l’emergenza di un individualismo sfrenato, di un neo-liberalismo in cui i desideri di un soggetto tendono a essere sentiti come “diritti” egoisti.
Chiede a tutti i cristiani d’Europa di custodire e approfondire l’identità cristiana non alzando muri o circondando le frontiere con popoli che recitano il Rosario per preservarle dagli attacchi dell’Islam, domanda non la chiusura preconcetta o l’autoreferenzialità, mette in guardia dagli atteggiamenti ispirati dalla paura perché la salvezza della persona si costruisce con l’incontro e il confronto con l’altro, con relazioni gratuite, forti e durature, cementate dalla mutua accettazione e dalla solidarietà. Cita il beato Paolo VI°:” Noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo della civiltà dove esso si inserisce. Ciò che per noi conta è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”
L’Unione Europa dovrebbe prefigurare per noi cristiani la solidarietà planetaria. È un’altra sfida che ci attende.
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