È passato un anno, ma lo strazio di certe immagini resta vivo. Poco dopo il terremoto alcune persone si raccolgono davanti alle macerie della chiesa di San Benedetto a Norcia: chi in piedi, chi in ginocchio, chi costretto su una sedia a rotelle. Due francescani pregano. Due donne di diversa età, inginocchiate, si tengono per mano. Tutti chinano il capo per rispetto al luogo sacro, alla città distrutta, alla comune memoria di ciò che essa era fino a qualche momento prima. Insieme condividono un atto di sottomissione alla forza della natura e di remissione alla volontà di Dio. Atti che invocano empatia e commozione.
Sono passati 75 anni, ma certe immagini interrogano ancora. Un corteo di donne e bambini ebrei esce dal ghetto di Varsavia con le mani alzate. Una sola inquadratura unisce perseguitati, persecutori e collaborazionisti. È impossibile non identificarsi con il bambino in primo piano: il gesto di resa, il cappello troppo grande, il cappotto svasato, i pantaloncini corti, le gambe esili e gli occhi, atterriti e insieme colmi di dignità. Accanto a due militari tedeschi che impugnano il mitra contro gli inermi, due polacche collaborazioniste ostentano il saluto hitleriano. In grande maggioranza i polacchi, benché ostili ai tedeschi, non mossero un dito a difesa dei loro concittadini ebrei: incapaci di commozione, impregnati da secoli di antisemitismo, girarono la testa dall’altra parte. Le due collaborazioniste assistono al sacrificio del più debole per chiedere tacitamente salvezza al più forte.
Confronto le due foto e mi interrogo. Un popolo devoto al cattolicesimo non volge il proprio sguardo a Dio nel compiersi di una tragedia immane; anzi, qualcuno si mostra complice attivo del nazismo. Ai bordi del ghetto di Varsavia la religiosità tace; la fede è posticcia, vuota, persino meschina. A Norcia, nell’Umbria laica ancora memore della monarchia papale, la tragedia suscita un sentimento spontaneo di condivisione. La religiosità parla e la fede è viva.
La preghiera fa la differenza. Si può vivere una tragedia con il cuore indurito, senza il calore di un atto solidale, e sentirsi ugualmente a posto con la propria «fede». La remissività del cuore davanti a un comune dramma inconsolabile può venire invece suscitata da una forma silenziosa di vicinanza empatica, che la religiosità trasforma in uno spirito di comunione.
La preghiera è una forma di affratellamento, anche intensa, ma non si risolve in quel sentimento. Pietas e fratellanza accomunano credenti e non credenti; non è che la fede apporti qualcosa in più. Dobbiamo scavare ancora nelle foto.
Le donne di Varsavia che osservano la deportazione dal ghetto non affidano gli ebrei a Dio. Il bimbo si affida ai familiari che gli sono accanto: non tutto è ancora compiuto anche se tutto sta per compiersi. Persino ad Auschwitz e in altri luoghi di soppressione di massa, molti ebrei adulti pregarono, come pregarono molti cristiani, zingari, omosessuali e prigionieri politici. Gli ebrei affidano a Dio l’incombente sterminio del loro popolo, il compiersi di un destino che i loro nemici avevano pianificato con puntigliosa organizzazione. Più privato, ma non meno autentico, l’affidamento dei non ebrei. Tutti, nei lager, vissero una situazione di soglia.
Gli adulti di Norcia sono oltre quella soglia: possono affidarsi solo a Dio, perché tutto ormai è compiuto. Come atto di remissione, la preghiera oscilla tra due poli, il compimento e l’incompiuto. La preghiera, che manifesta l’utopia, media tra il già e il non-ancora, si volge ad un altrove che trascende il presente, che si contempla oltre i limiti del tempo e dello spazio e in cui è l’assolutamente Altro.
Tra i verbi a cui la lingua latina ricorre per distinguere i vari aspetti della preghiera, vi è rogare, l’atto del chiedere, dell’impetrare qualcosa da Dio che non possiamo ottenere da soli. È la forma più elementare e arcaica di preghiera: ci volgiamo a Dio, o a un suo intermediario, perché esaudisca la nostra speranza o ci restituisca uno stato di pace interiore. La rogatio prende forma o per scongiurare il compiersi di un destino incombente o per un bisogno di consolazione e conforto.
L’oratio è invece la preghiera preformulata: un atto che si compie mediante la parola rituale, grazie a uno specifico, disciplinato esercizio. La liturgia di cui si ammanta è consuetudinaria e si trasforma in culto. L’assiduità porta con sé un controllo interiore che lo slancio mistico non conosce. Il suo rituale ripetersi rasserena, indirizza, struttura l’io dell’orante. Da orare derivano due rafforzativi: ex-orare, il pregare caldamente, con particolare devozione; e ad-orare, il pregare in presenza, nel tempio dove Dio abita e si manifesta.
Agli antipodi del rogare vi è il precari: si manda in avanscoperta il cuore, in un atto di fiducia in Dio. La preghiera è per Teresa d’Avila «un commercio d’amicizia», un desiderio di coabitazione. L’assiduità e l’intimità della frequentazione rendono più profonda la relazione. Diversamente dalla rogatio, l’amicizia per Dio non chiede di essere contraccambiata in modo manifesto. Questa preghiera è libera, non conosce formule, è personalizzata e tende alla contemplazione mistica.
Agli antipodi dell’orare vi è invece l’obsecrare, il piegarsi alla forza del sacro. «Sia fatta la tua volontà». Appartengo alla volontà di Dio: non posso che accoglierla e farla mia. Quando tutto è compiuto la preghiera diviene un abbandono alla misericordia. Sotto la sofferenza fa capolino la dolcezza della consolazione, il piacere indefinibile della pace.
L’abbandono però non è passivo, non è solo l’accettare che sia quel che è o che accade. È anche obbedienza al dettato della parola di Dio, in nome della quale posso respingere quel che è o che accade: un atto ingiusto, una condizione inaccettabile. Il piegarsi alla sacralità di Dio ci porta a piegarci alla sacralità della persona umana: questa relazione apre le religioni non avvelenate dall’integralismo a sviluppi liberali, all’incontro con i regimi democratici e alla libera partecipazione ideale a fianco di persone laiche o di altre religioni che condividono gli stessi valori. La preghiera si fa dialogo, cooperazione, intenzione condivisa in nome di valori che trascendono la particolarità delle circostanze e attingono un frammento di eternità che subito dilegua ma non scompare nei vissuti. Ai suoi vertici il riconoscimento della sacralità degli altri, degli esseri viventi e della natura porta a uno stato di innamoramento della vita che si manifesta nella meraviglia e nella benevolenza: esperienze che non sono prerogativa dei soli credenti, e che lo sono a maggior ragione per i laici.
Il rogare e l’orare ci portano verso una religiosità più formale, più liturgica. Non sembri con questo più povera. Pavel Florenskij ha voluto difendere la preghiera rituale, come esercizio e messa alla prova: la ripetizione è un continuo confermarsi nella fede, non un’abitudine che si consuma senza pathos, ma un mettere sotto esame la propria confermazione. Affiora in lontananza l’ossessione del monachesimo medioevale per l’accidia, che quell’esame non sembra poter superare. La liturgia è uno scenario strutturato che mette ordine nello scenario psichico e intellettuale del credente: è la sua guida, il binario sicuro che non espone a deragliamenti e dubbi.
All’opposto le componenti più mistiche sono più inclini al precari e all’obsecrare. La preghiera è informale, sgorga libera, non segue strutture prefissate, non deve manifestare dogmi di fede per compiacere Dio manifestando la propria ortodossia. E può ospitare sentimenti delicati altrimenti inesprimibili: il dolore, l’affetto, la preoccupazione, lo smarrimento, l’affidarsi a un futuro di speranza. Così è stato per me nei mesi in cui mio nipote ha combattuto contro un tumore multiplo nato dal polmone sinistro e diffusosi nel cervello. Andavo nella basilica di Sant’Ambrogio, a pochi passi dalla clinica dove effettuava la chemioterapia; mi sedevo, me ne stavo in silenzio, chinavo la testa, lasciavo filtrare la paura, la commozione, la speranza. Dio era una parola impronunciabile, ma stava sulla punta della lingua. Al contrario, i nomi di intercessori e quel poco che ricordo delle preghiere preconfezionate mi risultavano estranei, ostacoli al mio precari, al mio obsecrare. Era estate, un’estate calda, e a Sant’Ambrogio stavo bene. Ma era quel suo silenzio, quella densità delle migliaia e migliaia di religiosità che aveva ospitato, a farmi stare bene. Poi anche il fresco ha avuto la sua parte.
Quattro anni dopo tutto delle emozioni di quei mesi è lontano. È cambiata la mia vita. Ma, se capita di pensarci, sono contento e sento che posso guardarmi allo specchio con meno severità. In cambio entro spesso nelle chiese che ho a disposizione quando ho voglia. Non prego; semplicemente guardo, ascolto, mi siedo senza formalità sulla panca e sto lì. In quei momenti sto bene. Non mi domando niente: mi basta così.
You must be logged in to post a comment Login