Lo scorso 31 agosto ricorreva il ventesimo anniversario della morte di Lady Diana Spencer, principessa di Galles, divorziata da un anno dal principe Carlo, erede al trono d’Inghilterra, e madre di William e di Harry, rispettivamente secondo e terzo nella linea di successione. Lady D, com’era da noi conosciuta, perse la vita a Parigi – aveva da poco compiuto 36 anni – in un terribile schianto contro un pilastro del Tunnel dell’Alma, insieme con il suo ultimo amico e frequentatore, Dodi Al-Fayed, figlio di Mohamed, proprietario allora dei grandi magazzini londinesi Harrods e del grand hotel parigino Ritz, e con l’autista della Mercedes 280 S di cui si trovava a bordo.
Anche questa ricorrenza, come accadde nelle ore immediatamente successive alla morte, e nei giorni dei funerali, è stata celebrata e ricordata con grandissimo seguito e commozione, specialmente sui social. Lady D è passata alla storia del XXI secolo, che si stava affacciando al terzo millennio, come un’eroina, un personaggio indimenticabile, quasi una santa laica, impegnatissima nel mondo in opere di solidarietà e di carità, messa a sempre a confronto con un inviso principe Carlo, il suo ex marito, e soprattutto con la nuova compagna di lui, Camilla Shand, già sposata Parker Bowles, e oggi coniuge legittima e duchessa di Cornovaglia. Un’usurpatrice, per molti.
Sono termini un po’ desueti, questi, soprattutto ai giorni nostri, e da noi in Italia in particolare, quando le dinastie reali non sempre godono di grandi apprezzamenti. Ma quanto accadde allora, la mattina del 31 agosto 1997, nel momento in cui si diffuse la notizia della morte di Lady D, fu davvero un fenomeno di isteria, in senso benevolo, in tutta Europa. William e Harry, i due figlioli di Diana e di Carlo, che all’epoca erano due ragazzini, furono presi in un abbraccio collettivo. Tonnellate di messaggi e di fiori piovvero a Londra e vennero depositati davanti ai palazzi di Buckingam e di Kensington, che era rimasta la residenza della principessa, anche dopo il divorzio. Il giornale italiano l’Unità, quotidiano comunista fondato da Antonio Gramsci, pubblicò in prima pagina il titolo “Perdonaci, Principessa”, come se dovesse espiare colpe di cui non si sono mai compresi il significato e l’origine, se non un forte sentimento emozionale che, tuttavia, dovrebbe essere alieno da giornalisti e giornali di ispirazione comunista.
Le voci fuori del coro furono davvero poche: in Italia quella del giornalista Giorgio Bocca, che però, da sempre aveva caratterizzato i suoi interventi con annotazioni da Bastian contrario in servizio permanente effettivo.
In queste ultime settimane, invece, un bravissimo cronista italiano, Vittorio Sabadin, già corrispondente da Londra della Stampa di Torino, ha cercato di ricollocare la figura di Diana Spencer in una dimensione umana, e purtroppo sfortunatissima, di donna e di madre, oltre che di personaggio del jet-set internazionale, come si dice, pubblicando un libro che merita di essere letto e meditato per la sua asciuttezza, per il suo equilibrio e per l’impegno dimostrato dall’autore nella ricerca di una verità non sempre facile da conquistare: “Diana, vita e destino”, pubblicato da Utet.
L’alone di mistero, causato dalla “immensità” della tragedia, attorno alla morte di Diana suscitò, come spesso accade in questi casi, un turbinìo di illazioni, di sospetti e di “verità” presunte e indimostrabili.
Si parlò, all’inizio, di una colpa dei reporter e dei paparazzi che inseguivano a rotta di collo e pericolosamente Diana e Dodi nel Tunnel dell’Alma per rubarne immagini da diffondere sui rotocalchi. Qualcuno anche ipotizzò un’operazione funesta dei servizi segreti britannici per eliminare un figura ingombrante per la famiglia reale, soprattutto dopo che ella si era messa a frequentare un personaggio scomodo e sgradito come il ricco egiziano Dodi Al-Fayed, di cui addirittura si sospettava che aspettasse un figlio. In realtà Diana morì perché l’auto a bordo della quale era salita uscendo dall’hotel Ritz era una vettura insicura e malandata, non in grado di poter affrontare il tunnel a forte velocità. E perché l’autista che la guidava, si accertò poi, aveva alzato il gomito oltre i limiti tollerati.
Una fine tragica, sfortunatissima ma in un certo senso “normale” e spiegabile. Tali interpretazioni, a ben vedere, non sono mai fatti nuovi: ce ne furono anche dopo la morte del giovane attore americano James Dean che, nel momento del suo massimo fulgore artistico e dopo avere interpretato tre film di enorme successo (Gioventù bruciata su tutti) – all’età di soli 24 anni –, rimase ucciso su una strada della California mentre correva con la sua Porsche 550 Spider a più di cento miglia all’ora. Ci fu anche qualcuno che volle far credere a un James Dean scomparso, per sua stessa volontà e chiudersi in solitudine, su un carro di fuoco…
Le vicende della vita e della storia sono strane. Gli antichi dicevano che chi muore giovane è caro agli dei, con tutto quel che ne consegue. È una penosa consolazione. Nessuno ha risposte: se Dean fosse rimasto vivo, probabilmente, avrebbe condotto una carriera senza tanti sconvolgimenti, e oggi avrebbe 86 anni. In quanto a Diana – scrive con realismo Vittorio Sabadin nel suo libro – “Se non avesse sposato Dodi… Sarebbe passata ancora da un amante all’altro e ora vivrebbe magari in qualche villa della Florida o della California, ancora impegnata in opere caritatevoli, ma dimenticata da tutti”.
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