Ci sono ferite che non si rimarginano mai. Nonostante lo scorrere degli anni e a dispetto della vita che a volte ritrova vigore dopo eventi tragici.
Certe ferite restano, magari invisibili perché nascoste nel cuore delle persone, per tutta la vita. Non è vero che i bambini dimenticano più facilmente: Lea e Daniele Nissim, due fratellini ebrei segnati dalla persecuzione degli anni della guerra non hanno dimenticato. Neppure coloro che li hanno salvati, grazie alla rete di protezione messa in atto a Varese da Calogero Marrone con Alfredo Brusa Pasquè e alcuni sacerdoti della Parrocchia di San Vittore. Marrone, per il tramite della coraggiosa staffetta Anna Sala, procurò i documenti che attribuivano loro una nuova identità: da ebrei in fuga risultarono essere parte di una famiglia proveniente da Caserta, città posta sotto la linea gotica.
Il costruttore milanese Giacinto De Grandi offrì loro come rifugio la sua casa di campagna a Cunardo, paese che li custodì nei duri mesi della recrudescenza nazifascista.
Lea e Daniele hanno un cognome significativo, Nissim, “miracolo” in ebraico. Da Varese sarebbero solo dovuti passare mentre erano diretti in Svizzera insieme con la madre, il padre Paolo, rabbino capo di Padova, la zia e la nonna.
Fermati nella nostra città, si salvarono grazie alla solidarietà di tante persone, non ultimi gli abitanti di Cunardo che li sostennero mantenendo il segreto della loro provenienza. Racconta Lea che quando i compagni di gioco di Cunardo le chiesero il nome, lei rispose che si chiamava Lea e che veniva da Padova, ma non doveva dirlo a nessuno!
Finita la guerra, la famiglia Nissim ritornò a Padova dove cercò di riprendere una vita normale. Pochi anni dopo andò a vivere nella terra dei padri, in Israele, dove oggi Lea e il fratello minore Daniele vivono con le rispettive famiglie allargate.
Qualche mese fa, un incontro casuale in Israele tra Daniele, oggi ultrasettantenne, e Giovanni Bloisi, ciclista varesotto impegnato in una lunga pedalata da Varese a Gerusalemme lungo i Percorsi della Memoria del nostro paese, fa emergere dal passato la storia della famiglia Nissim.
Daniele riconosce per strada il ciclista Giovanni, noto ai media israeliani, e gli chiede, in un italiano dall’inflessione veneta, se “ha sentito parlare di Cunardo” un paese che si trova in Italia! Giovanni intuisce di essersi imbattuto in una storia non ancora scritta e si prodiga per ricucire il filo interrotto più di settant’anni fa.
Si organizza il ritorno dei Nissim al paese che li aveva salvati.
Il 19 ottobre Daniele e Lea, accolti dalle autorità locali e dalla cittadinanza, arrivano a Cunardo dove ritrovano la loro casa-rifugio. Una storia finita bene: la loro discendenza non si è interrotta a causa del “male assoluto”, come testimonia la fotografia, anzi, la gigantografia, della famiglia israeliana dei Nissim al completo: nonni, figli, nipoti e pronipoti, tutti in posa per mandare un saluto all’Italia.
Ma Lea e Daniele l’orrore di quei giorni in fuga da Padova verso la Svizzera, le incursioni dei nazifascisti sui treni, i cani lupo in perlustrazione notturna nel paese, la paura di un destino crudele sempre in agguato, quello non lo dimenticheranno mai. Perché i bambini, anche quando sono tenuti all’oscuro della realtà, percepiscono le emozioni degli adulti, ne registrano le ansie, sanno leggere nei loro occhi la verità. Non possono cancellare facilmente il passato solo perché il loro senso del tempo di bambini risulta incompleto.
Ci chiediamo perché i Nissim, tornati a Padova, non abbiano sentito il bisogno di mantenere i contatti con Cunardo. Ce lo spiegano loro stessi: le ferite dell’odio erano così profonde da non consentire alla famiglia di ritrovarsi troppo presto faccia a faccia con le sofferenze appena superate. L’infanzia di Lea e di Daniele è stata caratterizzata dalla paura: il presente era la fuga, la normalità era lo sguardo senza futuro dei genitori, lo spazio vitale quel piccolo giardino recintato nel cuore di un paese ospitale però racchiuso dentro i confini di una nazione governata da un regime infausto.
Come scrisse il poeta ebreo rumeno Paul Celan “L’Olocausto era il latte nero che i bambini succhiavano al mattino, a mezzogiorno, a sera”.
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