La scorsa settimana ho potuto visitare la mostra di Amiet al Museo d’Arte di Mendrisio.
Si intitola “Il Paradiso di Cuno Amiet”.
Ha detto in occasione della presentazione Aurora Scotti, una delle curatrici, che le sarebbe piaciuto ancor più si chiamasse “I Paradisi di Amiet”.
Nel percorso artistico del pittore – nato a Soletta nel 1868 e morto nel 1961 a oltre novant’anni di vita – partecipe di un secolo attraversato da due conflitti mondiali, si incontrano infatti momenti (o luoghi)fondamentali che hanno fatto dell’esistenza dello stesso non solo un ottimo artista, protagonista con Ferdinand Hodler della pittura svizzera del Novecento, ma soprattutto un uomo felice.
Sono ad esempio il momento della conoscenza e della ricerca d’artista e quello dell’amore per Anna, moglie e compagna di una vita. Ma lo è anche quello dell’incontro con la natura – concretizzatosi poi appieno nella bella dimora Di Oschwand, nella campagna bernese -, l’Eden amato e dipinto dall’inizio fino alla fine.
Aldilà dell’interesse di questa prima, ampia retrospettiva – la prima in territorio elvetico di lingua italiana di Amiet, ancora poco conosciuto qui – visitando le sale è possibile trarre anche un insegnamento: si può vivere bene e a lungo se si è felici e in pace con se stessi.
L’amore per la persona amata, per l’arte, per la bellezza ci aiutano a vivere; Amiet, che aveva detto sì alla bellezza e all’amore, ne è testimone.
E la vita lo aveva premiato.
Non sempre, non per tutti è così.
La mostra rivela invece nel “clic” pittorico di altissime istantanee d’artista intensi momenti di una felice esistenza: Anna che raccoglie i frutti del giardino, lei e il marito pittore che si accompagnano nel verde, un albero che sbuca dal candore della neve illuminato dal sole chiaro dell’inverno. E l’immagine finale, una grande tela evanescente del ‘58 in cui il ricordo di lei, che se n’è andata verso l’ultimo Paradiso, va a ricongiungersi a un’opera delle origini, là dove Cuno aveva già previsto, e dipinto, il suo paradiso terrestre in compagnia di Anna.
Proprio nei giorni di questo felice incontro con la mostra di Mendrisio mi è capitato di leggere un’inchiesta giornalistica sulle inumane condizioni di vita di tanti giovani giapponesi sottoposti a ritmi di lavoro lunghissimi e massacranti. Al punto che non pochi muoiono di stress. L’inchiesta rivela che molti tra loro mangiano, e trascorrono anche buon parte della notte, in ufficio, arrivando a coprire ottanta ore di straordinario settimanale.
Le imprese stanno ora cominciando, finalmente, a farsi delle domande. Anche perché il numero estenuante di ore non porta beneficio alla produttività, al contrario i lavoratori giapponesi non riescono ad alzarne l’asticella del Paese a livello degli altri competitors.
Ecco: a volte basterebbe un clic per cambiare la vita.
Si spegne un bottone, e se ne pigia un altro. Chissà mai che una delle patrie della tecnologia impari a usarla anche per lavorare meno e per fare dei suoi figli dei cittadini felici.
Peggio sarebbe che anche noi occidentali finissimo per adottare certi orari. Perché ormai anche qui si lavora troppo, e male. Così coppie e figli stanno sempre meno insieme, non condividendo come si dovrebbe pasti e momenti quotidiani significativi e importanti all’interno della propria casa.
Mentre gli stipendi, mortificanti in molti casi per gli studi fatti e le capacità acquisite, non sono adeguati all’impegno e alla mansione richiesta.
Basterebbe un clic per rallentare il ritmo, per operare un cambiamento. E invece l’impressione è di adeguamento crescente alle regole correnti. In una società liquida si fa sempre più evanescente il rapporto tra le persone, e l’ambiente in cui si lavora, più che un luogo, diventa un non luogo, una nicchia in cui fissarsi inebetiti, senza ideali e scopo che sia quello di una scialba sopravvivenza giocata sulla superficialità dei rapporti.
A volte – è altra tragica notizia di questi ultimi giorni- in un contesto così alienante si perde del tutto il bene della ragione.
E scatta un altro clic, un clic perverso.
Un ragazzo ha filmato gli ultimi istanti di vita d’un coetaneo ferito in un incidente stradale. Mentre tutto avveniva, ha chiesto a chi lo seguiva su Facebook che avvertissero i soccorritori. Anziché stare accanto al giovane, anziché confortarlo in un momento così terribile, ne ha fissata l’agonia in un film, implacabile e incurante anche dei parenti che avrebbero potuto ricevere brutalmente, e così crudamente, la notizia.
Non c’è commento a tutto questo.
Mi consola pensare che se Amiet fosse ancora tra noi, pur nella nostra società liquida, continuerebbe a camminare su quella stessa strada d’artista e di uomo, come gli era sempre piaciuto fare nella lunga vita, con gli occhi rivolti al cielo e i piedi ben piantati nella sua terra.
Da persona libera godrebbe del suo amore per Anna e della sua casa tra gli alberi, ricolma di luce, di frutti e di fiori. E non smetterebbe di fissare nei suoi clic di provetto colorista l’immagine della giusta vita.
Ma si può sempre provare tutti, anche se non si ha l’estro dell’artista, a vivere meglio.
Qualcuno lo fa.
Basta un clic per cambiare la prospettiva.
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