Il voto in Lombardia e Veneto di domenica 22 ottobre farà discutere a lungo perché il tema sottoposto a referendum e, soprattutto, le intenzioni dei promotori non sono così semplici e lineari come si vorrebbe far credere.
Lo stesso esito del voto non è così “unificante” o “univoco” come spiegano i semplificatori di turno.
Ma andiamo con ordine cominciando dal quesito sottoposto al voto e dalle modalità previste nelle due Regioni. Nel Veneto la domanda era semplice: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?” mentre per la validità del referendum era richiesta la partecipazione di almeno il 50% degli elettori.
In Lombardia invece il quesito era formulato in termini molto più articolati con un esplicito richiamo dei vincoli costituzionali. Qui non era richiesto alcun quorum.
Per annullare le differenze, che non sono solo formali, ci vuole poco. Basta seguire i commenti e le valutazioni del dopo-voto egemonizzati, come era facilmente prevedibile, dalla Lega di Zaia, Maroni e Salvini. Con buona pace di quanti, accodandosi, pensavano di trarne qualche vantaggio.
Anche nel voto le differenze sono ancora più marcate.
In Veneto ha votato il 57,2% degli aventi diritto superando così il quorum previsto, mentre in Lombardia invece ci si è fermati al 38,2%. Ben venti punti percentuali in meno. Il referendum lombardo senza quorum è valido lo stesso, ma lo scarto tra le due regioni è enorme. In termini assoluti i partecipanti al voto nelle due Regioni sono stati 5,3 milioni, cioè il 44,7% dei 12 milioni aventi diritto. Nel Veneto 2,3 milioni su 4, in Lombardia 3 milioni su 8.
Tra i votanti il SI è più che plebiscitario (96,3%), ma in termini reali è stato scelto da 43 elettori su cento (55,6 su cento nel Veneto, 36,4 in Lombardia).
Per farsi un’idea ancora più precisa basti pensare che i SI lombardi sono 2.875.438, cioè 400.000 voti in più di quanti presi da Maroni per diventare presidente. Con la differenza che oggi poteva contare anche sull’apporto di buona parte del PD e del M5S.
Questi sono i numeri da cui si dovrebbe partire per fare una riflessione seria. Per cogliere certamente l’importanza di un pronunciamento popolare rilevante, che nessuno può permettersi di sottovalutare o disprezzare, ma anche per rilevarne limiti e contraddizioni.
Come in tutti i referendum il rischio di semplificazione e strumentalizzazione è fortissimo. Come pure quello di creare aspettative non realizzabili. Lo si è visto subito. Già un’ora dopo la chiusura dei seggi! Mentre il Presidente del Veneto forte del risultato conseguito annunciava rivendicazioni che andavano ben aldilà del quesito referendario, il suo omologo lombardo sorvolava sui numeri esibendosi in una temeraria difesa del voto elettronico che, ironia della sorte, proprio in quel momento si stava clamorosamente inceppando.
L’esito del voto è comunque chiaro: c’è una forte richiesta di autonomia alimentata dalla convinzione di poter così risolvere meglio i problemi del territorio di appartenenza. C’è però chi facendo leva su domande e aspettative legittime forza i termini della questione al punto da far riaffiorare le logiche separatiste sulle quali la Lega era nata e aveva costruito le sue fortune elettorali. La Lega sta scherzando col fuoco. Piegando l’esito del voto a fini di parte rischia di aprire un conflitto insanabile tra i diversi livelli istituzioni ed anche nel nostro tessuto sociale.
Gli spazi e le modalità per conseguire una maggiore autonomia, non l’autonomia tout court, sono chiaramente definiti dalla Costituzione. Se, per mero calcolo elettorale, anziché affrontare seriamente i problemi si accentuano i toni, alimentando un clima di contrapposizione e di scontro territoriale, istituzionale, politico, lo sbocco possibile dovrebbe suscitare più di qualche timore.
Non è così che si risponde alle aspettative degli elettori anche perché negli anni passati un confronto vero sullo stato delle autonomie e sul loro ruolo al tempo di una crisi inedita e devastante, è stato evitato da tutti. Anzi le politiche perseguite nell’ultimo decennio da governi diversi per composizione e finalità (a lungo occupati anche dai leghisti), hanno messo a dura prova l’intero sistema delle autonomi locali.
I Comuni, in particolare, per anni sono stati massacrati da politiche asfittiche all’insegna dell’austerità e del “patto di stabilità”. Progressivamente sono stati trasformati in bancomat dei governi aumentando la pressione fiscale locale e riducendo i servizi sociali e le tutele ambientali e del territorio. Per non parlare della situazione di degrado e di totale abbandono in cui versano Province e le Città Metropolitane dopo la “riforma” Del Rio.
È vero che viviamo tempi in cui la labilità della memoria è diventato, soprattutto in politica, un male diffuso, però ogni tanto un po’ di coerenza non guasterebbe.
Il tema delle autonomie è troppo importante per essere liquidato con qualche battuta o con estrose improvvisazioni. Per affrontarlo seriamente anche a livello regionale non basta certamente evocare la storia, i primati e le peculiarità della Lombardia Non serve neppure enfatizzare o mitizzare gli enti che quella autonomia rappresentano perché anch’essi sono sottoposti al logoramento che ha investito tutti i livelli istituzionali. Purtroppo anche le nostre autonomie non sempre brillano per efficienza e qualità nella erogazione dei servizi, come nell’uso delle risorse, nella tutela dell’ambiente e del territorio. Così come non appaiono esenti dal fenomeno della corruzione o, persino, dalle intrusioni mafiose.
È solo partendo da qui e dai fenomeni più generali che fanno traballare persino gli Stati nazionali, la rivendicazione di maggiore autonomia acquista forza e credibilità. Il ruolo e la centralità del sistema autonomistico dipendono essenzialmente dalla capacità di misurarsi con l’inedita crisi economica e sociale che da anni mette tutti e tutto a dura prova e, soprattutto, cominciando a dare risposte adeguate alle domande ed ai bisogni di cittadini e gruppi sociali sempre più esposti e sfiduciati.
You must be logged in to post a comment Login