“Prof, ma lei non si diverte con noi?”.
Eccolo lì, al primo banco, il monello della IV A: capelli biondi a spazzola, un guizzo furbo nello sguardo azzurro. È l’ultima immagine che mi è rimasta negli occhi prima del pensionamento. Era una spina nel fianco, quel ragazzo. Ce n’era almeno uno in ogni classe: svegli, brillanti, vivaci; senza nessuna – ma proprio nessuna – voglia di studiare, eppure così simpatici.
“Certo che mi diverto” gli avevo risposto.
“E allora perché va in pensione?”.
“Per evitare che un giorno mi chiediate ‘perché non va in pensione?’”.
Coi ragazzi stavo bene, ma non volevo che il gap generazionale diventasse incolmabile, volevo andarmene – lo confesso – finché ancora potevo essere rimpianta, ma soprattutto volevo andarmene perché non sopportavo più la burocrazia, le riunioni inutili, i paroloni pseudo psico-pedagogici con cui il ministero ci martellava continuamente.
“Lei deve portarci in quinta”. Lo sguardo del monello-spina-nel-fianco si era fatto serio. Allora avevo aggiunto, rivolgendomi a tutta la classe: “Intanto, l’anno prossimo avrete un’insegnante bravissima; e poi ormai dovete camminare con le vostre gambe, non potete sempre correre dalla mamma ogni volta che avete un problema. Ce la farete di sicuro”. Però mi avevano insinuato il dubbio: faccio bene ad andarmene? Ho concluso il mio lavoro? Sono stata capace di farli camminare da soli?
Insegnavo ai Geometri da quando, nel ’76, avevo scelto la sede definitiva; insegnavo Italiano e Storia, non certo le materie preferite dagli studenti di quell’indirizzo di studi. Era una fatica continua e spesso frustrante far capire loro la bellezza dei Sepolcri o de L’infinito. Tuttavia, ciò che mi stava più a cuore era abituarli a pensare con la propria testa (anche se spesso, quando mi dicevano “pensavo che questo non fosse da studiare”, mi divertivo a fingere un’espressione feroce e rispondevo “tu non devi pensare, tu devi e-se-gui-re”). Li avevo indotti a mettere in discussione le affermazioni acritiche, a guardare sempre l’altra faccia della medaglia, a dubitare e a riflettere. Avevo fatto di tutto per sviluppare in loro l’ironia, e soprattutto l’autoironia, come antidoto ai dolori e alle difficoltà della vita.
Ci ero riuscita? Oppure si erano sentiti presi in giro e umiliati? Non è facile per degli adolescenti prendere le distanze dalle proprie emozioni e dai propri sentimenti. E se, al contrario, avessero colto solo l’aspetto ludico e superficiale delle mie battute? Forse la domanda del biondino di IV rivelava proprio questo fraintendimento. Erano tutti interrogativi che mi ero posta continuamente nel corso degli anni e, a dire il vero, le risposte che avevo trovato nell’atteggiamento dei ragazzi avevano sempre fugato i dubbi. Ma quello era il momento conclusivo della mia attività e i bilanci erano inevitabili.
Poi, alla fine dell’anno scolastico, nell’ultimo numero del giornalino d’Istituto comparvero due lettere con cui gli studenti si accomiatavano da me. Sembrava che mi avessero letto nel pensiero, perché ogni frase risolveva uno dei miei problemi. Avevano persino saputo alternare sapientemente riflessioni serie e battute sdrammatizzanti, dimostrando di aver colto il valore dell’ironia.
Forse non ero riuscita a far loro apprezzare Foscolo e Leopardi, ma certo le cose importanti le avevano capite, anzi, con quelle lettere me le stavano insegnando. Potevo andarmene.
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