Capita molto spesso di osservare la vita: in tram, sulla strada, nelle vie, nelle piazze, nei paesi o nelle città e di fermarsi un attimo a pensare. Ma com’era quella vita? Era forse più vera e autentica di quella presente? Il pericolo è di cadere in varie forme nostalgiche o nella presunzione di pensare che il proprio tempo sia stato il più bello e adeguato possibile.
È un po’ la condizione di anziani che, delusi dalle trasformazioni caotiche del progresso, non volessero aderire al tentativo di fare un passo in più per essere ancora protagonisti.
In molti casi ecco l’errore di voler enfatizzare, costruendo categorie che potrebbero essere utili sul piano individuale, ma assolutamente prive di coesione sociale. È come se improvvisamente si decidesse di non vivere più e di chiudersi in una sorta di romanzo autobiografico. Niente di più drammatico.
Chiudersi è un dramma, una sorta di autoflagellazione, un gesto insensato che condanna la vita, togliendole la forza e la bellezza dell’imprevedibilità e la giusta aspirazione al cambiamento. Chi ha avuto l’opportunità di vivere il passaggio di un tempo piuttosto lungo, nelle sue implicazioni storiche, umane, sociali e psicologiche, sa che ogni epoca ha le sue chiavi di lettura e che nulla è statico, a ogni cambiamento corrisponde un’organizzazione, a ogni invenzione un comportamento. Ogni epoca ha il suo stile, le sue forme, i suoi contenuti, le sue depressioni, i suoi vuoti, i suoi slanci, le sue disabilità, ma tutto concorre a delineare, a costruire, anche quando potrebbe apparire il contrario.
Esiste la possibilità di far convivere passato e presente? Credo che uno sforzo si debba fare, soprattutto là dove la condizione umana rivela la sua capacità di coesione storica, il suo saper andare oltre i muri e gli egoismi, riconoscendo di aver bisogno di qualcosa che la renda più umanamente accettabile.
Possiamo affermare che l’uomo, per quanto proiettato verso il futuro, senta fortemente la necessità di poter contare su un equilibrio nel quale poter riaprire, ogni volta che ne sente il bisogno, la necessità di comporre e di ricomporre, cercando le risposte più adatte, quelle che lo abilitano a interagire con il mondo.
La cultura è cresciuta attraverso varie forme di aggregazione, si è delineata ed evoluta ascoltando di volta in volta il richiamo di una natura mai rinunciataria, sempre protesa all’ascolto, alla riflessione, alla conquista di nuove forme di convivenza e di convenienza sociale.
Un tempo si viveva senza l’assillo di un telefonino invadente, c’era più spazio per pensare, per aggiornare e leggere le emozioni, i sentimenti, per tentare di dare un senso ai sussulti umani. C’erano molta riservatezza e attenzione, la parola era meno aggressiva, più controllata, meno divorata da incontrollate frenesie o passioni, c’era più tempo per costruire una storia, un modo vivere e di pensare. La natura umana era più umana, non si sentiva condizionata e in alcuni casi disarcionata dagli eventi, li osservava con pacatezza e discrezione.
Quante attese, quanti pensieri, quante possibilità d’interpretazione, quanti modi di affrontare un problema, una storia, un evento. Era come se ci si preparasse cercando la soluzione migliore, quella più capace di mettere in relazione i sogni con la realtà.
Nella vecchia società contadina era difficile immaginare cosa potesse succedere di lì a poco, lo spirito aveva più tempo per ritemprarsi, per godere di quell’infinito che accompagnava il sentimento del tempo. Non c’era l’assillo del quando, del come, del perché, si procedeva a passi lunghi e pesanti, lasciando allo sguardo della mente e del cuore la facoltà di godere delle generosità della vita.
Molti giovani hanno attinto al silenzio e alla bellezza, alla passione e alla gioia, tralasciando calcoli e consumati programmi. Nelle idee del passato la fatica, la pazienza, la fantasia e il buon senso erano leader, non c’era bisogno di generatori di corrente, la corrente c’era sempre e la sua funzionalità si esercitava e si rafforzava nel coraggio di saper aderire alla vita nella sua dirompente quotidianità. I giovani e gli anziani vivevano di piccoli miracoli quotidiani, usciti di slancio dalla voglia di essere più dentro possibile a un tempo scandito dal passaggio delle stagioni.
L’uomo adorava la vita, ne comprendeva il significato dissodando un terreno, raccogliendo l’uva su filari impossibili, nella polvere della trebbiatura, nel fuoco di un camino acceso, nell’odore caldo della legna appena bruciata, nella certezza che oltre una grande famiglia unita c’era il nulla. Ne scandiva i tempi con una parola mai logora, invasiva, intrusiva, ma pacata e pudica, piena di solerti retrospettive e di ponderati pensieri. Incontrava fermenti nell’amabile disincanto di una natura presente in ogni fase della vita quotidiana. Ogni attimo era una conquista. Ne assaporava l’attesa, ne coglieva il sapore, ne valorizzava la forma, cercava di essere il più possibile coerente sulla base di valori passati al vaglio di famiglie vestite di nero, sobrie, incapaci di ridurre il tempo a uno scostumato oggetto di consumo.
Della vecchia civiltà contadina rimangono in molti casi l’orgoglio e la fierezza, l’idea che due genitori bastassero a sostenere le tempeste del mondo e che il dovere fosse l’unica strada naturale per arrivare alla coscienza di un diritto, mai privato della sua coscienza sociale, passibile sempre di reiterazioni e cambiamenti, ma soggetto alle regole di una vita comunitaria forte e ben realizzata.
Oggi il progresso divampa in ogni angolo del mondo, le disponibilità economiche divorano le ansie e le attese, si vive spesso in funzione di un quanto o di un chi sei, di quale carica hai, di quale foto immortali pienamente la tua identità. La vita è un rigurgito costante di velleità palesi e nascoste, un’interminabile corsa all’autodeterminazione, ma forse mancano la pazienza e la pacatezza, l’idea che occorra fare e lavorare bene per realizzare una comunità credibile.
Il fuoco della passione ludica contrasta spesso con quello di un professionismo esagerato, alla vocazione umana dell’io si oppongono varie forme di concorrenza sleale, in molti casi l’uomo ha perso il senso della misura, il suo bisogno di umanità e si abbandona a squilibrate forme di arroganza che consumano la storia, relegandola, in qualche caso, al ruolo di paradosso esistenziale.
Tra passato e presente esiste una contemporaneità, che va ricercata forse in una condizione in cui la coscienza abbia ancora una parte importante, quella che armonizza, che fa scaturire il fermento poetico dell’esistenza.
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