Ci sono certe parole o certe frasi che sono double face. Extracomunitario, per esempio. Se ci si riferisce a un cittadino svizzero, ci si toglie il cappello, gli si stende dinanzi una stuoia rossa indirizzata per lo più verso le nostre boutique e i nostri ipermercati; se si pensa invece a uno di quei poveracci sbarcati aumm aumm da qualche barcone, in fuga da un campo di concentramento all’altro, si trova anche chi vorrebbe prenderlo a bastonate perché – con ogni probabilità – è arrivato qui per delinquere.
Così, non a caso, ha preso aggio – anche e soprattutto tra politici di diverso colore e orientamento – una sorta di mozione d’ordine, rivolta soprattutto agli africani, quasi ispirata a un programma di intervento: “Aiutiamoli a casa loro!”. Frase che però può essere diversamente interpretata, se sdoppiata: “Aiutiamoli!” e “A casa loro!”. Non si capisce bene quale sia la parte che maggiormente abbia prevalso nella comunicazione dei media e nella sensibilità ricettiva degli italiani. Anche governativa.
Forse, come sosteneva qualche tempo fa il ministro dell’interno Marco Minniti, che sarebbe per il momento riuscito a congelare il flusso degli sbarchi in accordo con le guardie costiere libiche, non siamo ancora in uno “stato di emergenza”. Sta di fatto che per esempio in Africa (“casa loro”), fino a qualche decennio fa area di conquista e di sfruttamento da parte di molti Paesi europei, non è che le condizioni di vita anche in situazioni di pace siano buone o migliorate, anzi. Se poi si aggiungono guerre, carestie, conflitti civili si intuisce che per molti – spesso – la fuga e la ricerca di un futuro più degno siano le uniche soluzioni possibili.
Noi italiani, più di altri, e soprattutto nell’ultimo decennio ce ne siamo accorti. L’Italia – come sosteneva Benito Mussolini ma per altre ragioni – è un territorio proteso nel Mediterraneo, una specie di portaerei geografica. Ma è anche uno dei primi territori che i fuggiaschi sanno di poter vedere dai barconi.
Pretendere che i governi – e soprattutto il nostro – siano in grado di pilotare o gestire tali fenomeni di migrazione è cosa difficilissima, forse impossibile. Di solito, e crediamo sia anche ciò che è successo di recente, per attuare la politica del “cuore non vede e occhio non duole”, con tutti i problemi che esistono a casa nostra (in Italia e anche in Europa) si è messo mano al portafoglio.
Ma il “problema epocale” resta. Vien da pensare – solo per fare un termine di paragone e magari non del tutto appropriato – a quanto successe proprio da noi a cavallo dei secoli XIX e XX, quando maggiormente si stavano manifestando (al Nord in particolare) le conseguenze del fenomeno di industrializzazione e di abbandono delle campagne. I ragazzini soli nelle strade, senza educazione e cura. Gli anziani abbandonati a sé stessi. Gli handicappati dimenticati e considerati zavorra della società. Non fu, allora, a occuparsene lo Stato liberale, in altre faccende affaccendato, ma i privati e – nel caso i religiosi –: pensiamo a Giovanni Bosco, a Luigi Orione, a Luigi Guanella, che la Chiesa ha voluto porre sugli altari della santità.
In seguito, in tempi ancora più recenti, altri problemi complicati da arginare – si pensi alla droga, alla prostituzione, all’abbandono dei minori e anche all’accoglienza degli extracomunitari – si sono visti in campo ancora sacerdoti: don Luigi Ciotti, don Antonio Mazzi, don Andrea Gallo, don Oreste Benzi; e per stare più vicino a noi, a Varese, don Michele Barban. Coloro che alcuni hanno voluto chiamare “preti da strada”, e non sempre questa definizione è stata un complimento.
In questo quadro, a fronte del problema dei flussi migratori ma soprattutto di quelle parole d’ordine – Aiutiamoli a casa loro – , che rischierebbero altrimenti di essere vanificate, vorremmo inserire le cosiddette ong, vale a dire organizzazioni non governative. Non è una critica dura perché, anche qui, come fu per l’Italia di un secolo fa, i governi ufficiali con le loro politiche si sentono spesso altrove impegnati. Ma le organizzazioni non governative, per lo più presenti all’estero Asia, Africa, Sudamerica), non sono storia di oggi e nemmeno dell’altro ieri. Molte sono nate negli anni Cinquanta e Sessanta. Certe prese di posizione di critici svagati, secondo cui, ci sarebbe dietro non si sa quale guadagno, sono destituite da fondamento. Sono invece organizzazioni che, spesso, danno lustro al nostro Paese, e sono sempre di più le università italiane con indirizzi di studio particolari e giovani interessati che sono – per davvero – discese in campo. I bilanci delle ong, proprio perché si mantengono su finanziamenti di provati cittadini, sono i più trasparenti possibile.
Dovremmo citarne alcune, senza fare torto a nessuno. Ricordiamo allora Emergency di Gino Strada, vero italiano messaggero di pace nel mondo. Inoltre per i legami che questa ong è riuscita a intrecciare con l’università dell’Insubria, e più ampiamente con la nostra città, il Cuamm, i medici per l’Africa, la cui azione solidale data dal 1950, più di mezzo secolo. Letteralmente sta per Collegio universitario aspiranti medici missionari. Una organizzazione laica e una di impronta religiosa e cattolica, fondata nel 1950 a Padova, ma con cattolici e laici che spesso vi si scambiano i ruoli. Non è una azione, la loro, che sempre compare sui giornali.
Chi sa, li segue con passione, con apprensione, con stima. Da casa nostra “a casa loro”, per davvero, senza falsità, senza bugie.
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