C’è un fantasma che gira in un clima nefasto per il pianeta. A volte esso è subdolo, mascherato sotto il volto della democrazia partecipativa, a volte schietto, che si rivela con slogans deliranti e con progetti irrealizzabili: si chiama populismo. Esso è frutto dell’incapacità della politica di proporre ai cittadini programmi credibili, di indicare loro un punto di arrivo, un orizzonte a cui tutti possano mirare, di porsi alla guida dei cittadini ai quali non nascondere difficoltà e sacrifici. Il vero politico parla al cuore e all’intelligenza della sua gente, oggi preferisce parlare alla “pancia” della gente suscitando bassi istinti, sentimenti di rancore se non di odio. La politica dovrebbe guidare i cittadini, viceversa capita il contrario. È la politica che si lascia guidare dal popolo, ma, anche davanti alle più stravaganti richieste, preferisce abdicare al suo ruolo ispiratore pur di ottenere in cambio il consenso. I politici populisti tendono verso l’ “uomo forte al potere” e si presenta sotto diversi nomi.
Si chiama protezionismo quello riportato in onore da Trump (“America First”) che contiene un messaggio di esaltazione del primato mondiale degli USA e la sua celebrazione militare globale con il conseguente rifiuto delle regole dell’ordine internazionale. Si chiama isolazionismo quello praticato dal Regno Unito con la Brexit: sotto la spinta dell’opinione pubblica del ceto medio, come quello già proclamato dalla Signora Thatcher (“give me my money back”), la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea, salvo successivamente a pentirsi perché l’opinione pubblica britannica si è accorta che i costi dell’uscita sono superiori ai benefici che pensava di ricavare. Si chiama nazionalismo in quei paesi che credono di galvanizzare le proteste – talvolta legittime – richiamandosi alla rabbia diffusa, a una profonda insoddisfazione, ad un crescente divario nella distribuzione della ricchezza delle classi sociali più deboli o dei nostalgici neo-nazisti che si lasciano affascinare dai quei partiti come AfD (Alternative fuer Deutschland) che ha saputo approfittare abilmente del loro malcontento. È successo anche in Austria domenica scorsa dove il Partito Popolare, che già si era tramutato in un partito neo-conservatore e neo-liberale, dimenticando le sue origini basate sul solidarismo cristiano, rimane sì il primo partito, ma dove l’ultra destra islamofobica ed euroscettica si è piazzata al terzo posto volando al 26% dei suffragi. Il populismo si può camuffare anche da indipendentismo, quando una forte cultura locale, rappresentata da storia e lingua proprie, spinge il popolo a chiedere l’indipendenza dallo stato centrale, come è successo in Catalogna, dove la dichiarazione d’indipendenza è durata due minuti perché, subito dopo l’annuncio della secessione, questa è stata sospesa in attesa di un confronto con il governo nazionale. Il populismo può avere le caratteristiche del sovranismo, che porta a difendere i propri confini erigendo muri o schierando lungo le frontiere migliaia di cristiani intenti a recitare il rosario per chiedere protezione divina dall’invasione islamica, che potrebbe infettare la loro forte identità cattolica. Può assumere anche i caratteri di un becero localismo rappresentato da un ingannevole referendum a cui sono chiamati in questa domenica i veneti e i lombardi.
Il populismo può presentarsi sotto diversi aspetti, talvolta intersecati tra di loro. Resta sempre un fenomeno che, come la storia dimostra, può minare la democrazia.
Non sto qui a ricercare le cause di questo fenomeno – il declino delle classi medie, la perdita di certezze che creano odio e disperazione, sentimenti ampliati dai social network, la globalizzazione, i fenomeni migratori, il degrado urbano a cui si accompagna quello morale – preferisco far mia un’idea di Enrico Letta che in un suo recente discorso ha spiegato che, in mondo in cui i confini economici non coincidono più con quelli geo-politici, l’Europa dovrebbe passare da una forza fondata sull’attrattività e l’influenza economica alla forza dei suoi valori: la democrazia, la difesa dei diritti dell’uomo, la parità tra uomini e donne, di retribuzione, di protezione dell’ambiente e del patrimonio artistico, il diritto del lavoro, la laicità, la lotta ai cambiamenti climatici… Mentre sto scrivendo queste note, la radio mi porta in casa le parole di Papa Francesco, che, parlando davanti all’assemblea generale della FAO, si esprime così: ”[nella vostra attività dovrebbe entrare] la categoria dell’amore coniugata con gratuità, uguaglianza di trattamento, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia”. Parole di un pastore, ma anche di un profeta che indica a tutti gli uomini animati da buona volontà i mezzi da adoperare per raggiungere la speranza al di là della disperazione.
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Anche un referendum può essere una forma populista. Domenica io non andrò a votare.
Prima di tutto perché credo che il referendum in una democrazia non sia certo una panacea, ma una forma di demagogia spettacolare dove si manipola il popolo. Le giunte lombarda e veneta, appellandosi alla volontà popolare con un referendum propositivo, dimostrano che manca loro un potere decisionale, che sta per sfuggire dalle loro mani e, nell’intento di ritrovare una rinnovata capacità di governo, ricorrono al referendum popolare. Se avessero forza politica, perché non l’hanno chiesto ricorrendo alle normali forme di confronto e di contrattazione?
In secondo luogo il referendum regionale è indetto per “chiedere” allo stato centrale (espressione errata perché la nostra repubblica non è uno stato federale!) maggiore autonomia. Ma non indica in quali materie. Si presume che esse siano quelle elencate nel comma 2 dell’articolo 117 della Costituzione. Bene. Anche se la maggioranza dei votanti (non degli aventi diritto al voto!) ottenesse la maggioranza, le due regioni potranno “chiedere” maggiori autonomie, ma ad una richiesta si può rispondere anche con un diniego! E il referendum si dimostra inutile.
E se è inutile si sperperano risorse preziose che potrebbero essere benissimo destinate ad altre priorità: la messa in sicurezza delle strade, dei ponti, delle scuole, ad esempio, o a far diminuire i ticket sanitari.
Non facciamoci illusioni: i populismi hanno sempre dato luogo a divisioni e a conflitti, se non a dittature. Gli anziani come me ricordano le notti passate nei rifugi, i bombardamenti, le case distrutte, le macerie. Ogni luogo d’Italia conserva una memoria stratificata di questa storia passata – penso all’ “ottobre di sangue” varesino. Dobbiamo pensare al passato e trasmetterlo alle nuove generazioni per salvare il futuro che non è nelle mani di qualcuno, ma di tutti: una vera democrazia che susciti e associ, che coinvolga tutti e tutti faccia lavorare e responsabilizzare. Per immunizzarci contro i populismi.
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