Non sono più i tempi del “Sabato del villaggio” di leopardiana memoria, della nostalgia che la domenica procurava, con il pensiero dell’incombente nuova settimana, della fine del dì di festa.
La festa era, allora, il rovescio del duro lavoro quotidiano, l’interruzione momentanea ma anche il frutto di quella fatica. Oggi sembra di vivere in un tempo della festività diffusa interrotta dal lavoro.
Basta far correre lo sguardo sui manifesti pubblicitari per accorgersi che, ogni giorno, ci aspettano feste di ogni genere: volendo, potremmo impegnare le nostre giornate in una girandola di impegni extralavorativi.
Ma qual è il problema? Chi non vuole, può rimanere a casa, da solo o in compagnia di pochi amici, o decidere di stare in mezzo alla natura. Chi lo desidera, invece, avrà l’opportunità di scegliere, tra le numerose feste, quella che più si addice al proprio stato d’animo e che risponde ai propri interessi: gastronomici, naturalistici, artistico musicali, storico filosofici, religiosi.
Difficile scegliere bene, tra le tante proposte per il tempo libero. Ogni scelta comporta la rinuncia ad altre cose, e ciò che lasciamo indietro potrebbe essere stato meglio di ciò che abbiamo privilegiato.
Un po’ subisco l’ansia provocata dall’eccesso di festa, anche quando, alla fine, decido di rinunciarvi: si prova qualcosa che assomiglia alla malinconia della donzelletta con, in più, il carico affannoso delle nostre vite sempre più veloci. E’ il senso della perdita di ciò che avrei potuto conoscere e a cui, forse, non potrò più accedere. E’ la sensazione di non aver riempito a sufficienza il tempo della vita.
Anni fa Philippe Muray, intellettuale della corrente francese dei cosiddetti ‘’nouveaux reactionnaires’, coniò l’etichetta di homo festivus per dare un nome alla nuova umanità che bruciava il proprio tempo tra la Fête de la musique e Paris-Plage. Da uomo di destra non amava la visione delle folle assiepate nei luoghi un tempo riservati alla cultura d’elite, lo disturbava il popolino che si abbevera ad una cultura ormai divenuta di massa.
Muray esplorò il concetto di festivizzazione del mondo, mise a nudo alcune verità anche scomode: in primo luogo la contraddizione tra la definizione di tempi tristi, data alla nostra epoca da vari filosofi, e l’eccesso di feste che la caratterizzano, fino alla creazione dell’ossimoro di “triste epoca festosa”.
Non mi piace il sottile disprezzo di Muray nei confronti delle masse che si riversano alle mostre d’arte, partecipano ai festival, frequentano le fiere delle antichità, visitano i musei della civiltà contadina. Le folle saranno pure sprovviste della necessaria preparazione per capire a fondo, assimilare il senso del mondo che viene loro offerto sotto forma di festa; forse “consumano” le città d’arte più con spirito predatorio che con slancio ideale.
Ma le feste rappresentano un momento aggregativo e socializzante; si può imparare e acquisire cultura anche andando di festa in festa. Perché il contatto con il bello, ad ogni livello, la musica nei parchi, le sagre paesane, le giornate di divulgazione, ogni cosa può contribuire ad affinare, educare, elevare la cultura delle masse snobbate da Muray.
Poiché credo anche all’educazione per imitazione, all’istruzione per contatto e per contaminazione, ritengo che anche nei “non luoghi” dell’antropologo Marc Augé: aeroporti, autogrill, centri commerciali, stazioni, caratterizzati da una sorta di anonimato, esista la possibilità di creare relazioni, divertirsi, rigenerarsi, conoscere il mondo.
Mi rimane la sensazione che l’essere divenuti “homo festivus” includa troppe valenze negative come il rischio di stravolgere il ritmo dei giorni e l’equilibrio naturale della persona. Sensazione ancora confusa e con poco fondamento, forse.
Comunque, che la festa continui.
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