I cartelloni giganteschi Maroni & C. ce li hanno sbattuti in faccia ad ogni angolo di strada, ma nonostante lo stalking nessuno sembra ancora essersene accorto: domenica 22 ottobre i lombardi – come i veneti – sono chiamati ad un referendum consultivo per dire “SI” all’avvio delle trattative con il governo nazionale per “l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” e “nel quadro dell’unità nazionale”, beninteso intraprendendo “le iniziative istituzionali necessarie”. Cioè – come ha detto Formigoni, che se ne intende – per sapere se vogliamo bene “SI” o “NO” alla mamma, la Lombardia; fermo che vogliamo bene alla nonna, l’Italia, e che non ci mettiamo le dita nel naso ma rispettiamo i costumi familiari, cioè “le iniziative istituzionali necessarie”.
Certo, nessuna secessione alla catalana, ma “regionalismo differenziato” e tutto nei termini della costituzione nazionale: si dovrà concordare con lo Stato quali competenze aggiuntive e il loro costo statale e ottenerne il trasferimento alla Regione, a partire da una delibera del Consiglio Regionale e una successiva lettera del Presidente della Regione al Presidente del Consiglio. E il referendum? Non previsto, non necessario, del tutto inutile: la deliberazione del Consiglio Regionale per l’avvio delle trattative c’era già stata il 17 febbraio 2015, due anni e mezzo fa, ma la lettera di Maroni per l’avvio delle trattative non è mai partita, perchè contemporaneamente – con l’incredibile appoggio del Movimento 5 Stelle – il centro destra lombardo ha fatto deliberare il referendum consultivo, che la Costituzione non si era mai sognata di prescrivere.
E di cui non s’era certo sentito il bisogno nel 2007, regnante Formigoni, quando già il Consiglio Regionale all’unanimità aveva approvato l’avvio delle trattative per maggiori competenze regionali, e l’allora governo Prodi di buon grado aveva accettato di iniziarle. Peccato che con la caduta di Prodi e l’arrivo di Berlusconi nel 2008 si sia bloccato tutto: il povero Formigoni – l’ha raccontato di recente a “Libero” – si fregava le mani pensando tutto in discesa con il “governo amico”, mentre si recava ad Arcore dal Silvio nazionale, trovandolo attorniato dai due ministri super-leghisti Maroni e Zaia che lo rassicuravano fosse cosa fatta. Ma niente accadde, e fino alla caduta berlusconiana nel 2011 tutto rimase nel cassetto, insabbiato e bruciato dal fuoco amico. Ed ora quegli stessi Maroni e Zaia pretendono di far credere che la colpa dell’impasse é del centralismo romano e che sarebbe indispensabile l’appoggio referendario per rendere più forti i governi lombardo e veneto nella trattativa con i “nemici” di Roma?
Com’è allora che Maroni ha aspettato tanto per indire il suo beneamato referendum? Così indispensabile da aspettare 2 anni ad indirlo, il 29 maggio 2017? Con le scuse più scentrate e risibili, dal terremoto in Centro Italia al referendum costituzionale sino all’abbinamento con elezioni regionali anticipate mai avvenute. La verità è che il referendum maroniano è solo uno specchietto per le allodole, un espediente per farsi facile propaganda in vista delle elezioni regionali di inizio 2018, sfruttando il traino pubblicitario di un esito scontato: “SI, vogliamo bene a Mamma Lombardia”, sottinteso leghista-maroniana.
Altrimenti, se fosse stato una cosa un po’ più seria, il quesito referendario non sarebbe stato così generico e avrebbe indicato le materie che sin dalla delibera del Consiglio Regionale del 2007 si chiedeva venissero devolute dallo Stato alla Regione lombarda: tutela dell’ambiente? beni culturali? giustizia di pace? organizzazione sanitaria? protezione civile? infrastrutture? ricerca scientifica e tecnologica? programmazione delle università? cooperazione transfrontaliera? banche di interesse regionale? O quelle ulteriori che ora il nuovo improvvido Consiglio Regionale vorrebbe trattare: dalla zootecnia all’industria e commercio, dall’urbanistica alle acque pubbliche, dalla viabilità ai trasporti, dall’energia alle professioni alla sicurezza sul lavoro, o che altro? Ad esempio, anche la tutela della salute per poter interferire con l’obbligo di vaccinazione e strizzare l’occhio elettorale agli improbabili movimenti NO VAX?
Ma forse anche per il Maroni elettoralistico sarebbe troppo. Già la consultazione generica – che chiede al popolo lombardo un permesso speciale, per fare qualcosa che sarebbe preciso compito per cui ha eletto i propri rappresentanti in Consiglio Regionale – delegittima a sufficienza i consiglieri regionali eletti. A fare anche scegliere al popolo le materie, poteva sembrare che i consiglieri regionali maroniani non sanno fare niente e non valgono niente, meglio glissare.
In fondo, per fare mera propaganda elettorale col referendum è meglio proclamare ai quattro venti che il referendum servirebbe per riportare in Lombardia almeno metà del “residuo fiscale”, cioè la differenza tra tasse introitate in Lombardia e spese pubbliche effettuate in Lombardia, pari a circa 54 miliardi di euro, più del doppio dell’attuale bilancio della Regione lombarda! Quindi, 27 miliardi in più nel bilancio regionale? Slogan del tutto falso e sballato: i soldi non possono essere dati dallo Stato a casaccio o per le velleità di Maroni, ma esattamente in base a ciò che lo Stato spende oggi per le funzioni che diventerebbero lombarde domani: quindi, realisticamente – per le funzioni aggiuntive che potrebbero essere devolute alla Lombardia – circa 2-2,5 miliardi di euro in più.
E a proposito di soldi, cominciamo già male perché è un referendum costoso e sprecone: 55 milioni di euro circa, più di tutto ciò che la Regione trasferisce ai comuni per un anno di spese sociali. Metà dei quali per i mitici “tablet” olandesi per il voto elettronico, già meravigliosamente sperimentati in quei modelli di democrazia che sono Venezuela, Madagascar e Nigeria: dopo il referendum resterebbero alle scuole sedi elettorali ma, attenzione, solo in custodia, perché veri tablet non sono e non potranno essere applicati alle attività didattiche, essendo in realtà dei monitor con software elettorale, “voting machines” come recitava il bando regionale che ha indetto la gara d’appalto europea. Potranno servire solo per altri referendum regionali, che non si vedranno mai all’orizzonte essendo questo il primo ed unico da quando esiste la Regione Lombardia.
Referendum inutile, costoso, fasullo: un inganno a cui è doveroso sottrarsi, e fa rabbia vedere che nel frattempo la Regione Emilia-Romagna è già partita con le trattative, sulla sola giusta base della delibera del Consiglio Regionale e senza dilatori trucchi referendari.
Certo, la richiesta di maggiore autonomia per la Lombardia è obiettivo condivisibile, ed infatti nel 2007 era stato approvato all’unanimità in Consiglio Regionale, con il centrosinistra lombardo in prima fila a sostenere l’autonomia dei territori ma nel pieno rispetto dei diritti-doveri dei Consiglieri, senza bisogno di tornare dagli elettori per ulteriori mandati come ora. In ottica politicista e tattica, si può capire e condividere che i sindaci lombardi del PD – in testa Giorgio Gori, che sarà candidato per la presidenza della Regione nel 2018 – sostengano il voto per il SI: per le ragioni dette all’inizio, l’esito favorevole del voto popolare è scontato, e sarebbe assurdo che la leadership del CentroSinistra che si candida per le elezioni regionali ci arrivasse da perdente, e non potesse cointestarsi il successo referendario di un orientamento favorevole ad una maggiore autonomia lombarda, da sempre nella cultura del PD.
Ma per il comune cittadino, che non abbia esigenze di bandiera politica, occorre sottrarsi alla trappola propagandistica di Maroni: votare NO non si può, unica scelta logica – di rifiuto della strumentalizzazione leghista – è l’astensione.
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